la Repubblica, 28 dicembre 2024
L’ultima lezione di Walter Pedullà
Era l’ultima lezione. L’ultima in senso letterale: stava per concludersi il lungo magistero nell’università di Roma. Nell’aula I della facoltà di Lettere alla Sapienza, metà degli anni duemila, c’è un silenzio sospeso: senza particolari preamboli, Walter Pedullà legge una pagina del suo D’Arrigo. L’eccentrico, tormentato scrittore siciliano a cui aveva dedicato anni di studio e di amicizia. È difficile dimenticare le lezioni in cui Pedullà raccontava il surreale colpo d’occhio nelle stanze dello scrittore, con fili stendipanni adoperati per appendere fogli manoscritti del romanzo monstrum Horcynus Orca, fitti di varianti colorate. È difficile dimenticare il brano che scelse di leggere per congedarsi dall’insegnamento: quello in cui un delfino stringe uno speciale sodalizio con il ragazzino protagonista.Ne nasce un dialogo fatto di suoni e di batticuore, una musica che Pedullà restituiva con una commozione appena rattenuta, intuibile nell’affievolirsi della sua voce un poco nasale. Come in tutte le sue lezioni così in quell’ultima – se possibile ancora più intensamente – il professore entrava con tutte le scarpe nei testi, anzi ci si tuffava con il corpo massiccio come nelle acque del Mare dello Stretto – quello diHorcynus Orca e quello dei suoi natali (Pedullà era nato nel 1930 a Siderno, provincia di Reggio Calabria; è morto nella sua casa romana la sera di Santo Stefano). Ci si tuffava con la disinvoltura del “contemporaneista” che conosceva da vicino molti dei suoi autori, che li aveva frequentati, interrogati, in qualche caso perfino sostenuti e incoraggiati. Uno spirito sostanzialmente antiaccademico portato nel cuore dell’accademia: dai programmi dei suoi corsi, già dagli anni Sessanta, si intuisce la progressiva costruzione, se non di un anti-canone, di un canone alternativo – guizzante, insubordinato, giocato sulle «armi del comico» come antidoto all’eterno melodramma italiano; fondato sull’esperimento lessicale e strutturale in opposizione agli standard rassicuranti, normativi, polverosi. Più che dell’avanguardia in sé, che pure ha saputo interpretare come pochi e far filtrare dove avrebbe faticato a imporsi, Pedullà è stato ilgrande propugnatore del coté ironico- visionario della letteratura italiana novecentesca. A Moravia e Morante preferiva Gadda e Savinio, più di un Bassani amava Landolfi, Manganelli, Pagliarani, ai realisti di stretta osservanza preferiva i surrealisti, ai “seri” i sorridenti e gli ilari, ai maggiori i “minori” meridionali Alvaro, La Cava, Pizzuto, Strati.Nell’autobiografia Il pallone di stoffa(Rizzoli) rivendica come suo tratto distintivo l’umorismo, «sulla base del principio che è serio solociò che regge alla prova del riso». E tende un filo che da Palazzeschi e Svevo raggiunge il suo vecchio amico Malerba. «Autoironia, aiutami tu, proteggimi dalla tentazione di prendermi sul serio». Nonostante le credenziali impeccabili – era stato allievo e assistente di Giacomo Debenedetti, maestro sfuggente e oracolare che gli aveva insegnato a leggere i classici della tarda modernità («Non solo nuovo sapere, ma nuovi modelli di sapere») – era insuperabile nel dissipare la soggezione che involontariamente poteva incutere. Sorrideva sornione, tirava su, con un gesto veloce, un ciuffo di capelli bianchi vaporosi che subito ricadevano sulla fronte squadrata. E così dissimulava le malinconie dietro un piglio battagliero – «esercitazioni militari, ma non battaglie cruente»: da umili origini diventa lettore più che bulimico e appassionato intellettuale politico; socialista della vecchia guardia (scrisse ininterrottamente sull’Avanti! per oltre tre decenni, fino al tracollo della prima Repubblica), anche nei ruoli istituzionali – presidente della Rai e del Teatro di Roma, decano di giurie letterarie, direttore di riviste – non ha dismesso del tutto i panni dell’irregolare attento agli irregolari: «Mi pare che quasi tutti scrivano benino. Peccato che sia un fatto detestabile, come osservava Baudelaire», disse in una lunga intervista ad Antonio Gnoli su Robinson. Aggiunse di non aspettarsi capolavori, «ma qualche deviazione dalla norma sì». E in quella stessa occasione dette la più precisa definizione del suo stile di critico: «Tasso figurale altissimo. Metafore a non finire e paradossi». Vero. I suoi saggi, da Il morbo di Basedow, sull’avanguardia, a Lo schiaffo di Svevo,daLe caramelle di Musil aLe armi del comico hanno una prosa sincopata, creativa, nutrite di continue – asistematiche – illuminazioni. Militante inesausto, l’ultimo o uno degli ultimi, era rimasto l’iperlettore curioso e bulimico che da ragazzo, per tenersi sveglio, beveva litri di Coca-Cola, un bicchiere ogni ora, e leggeva e leggeva e scriveva battendo con l’indice i tasti di una Lettera 22 e dormiva mezzora e riprendeva. Felice, “drogato” di critica letteraria: «Quando avevo l’impressione di avere scoperto il segreto di un romanzo il mio corpo si riscaldava per concorso di idee e di inconscio».