Corriere della Sera, 28 dicembre 2024
Jacky Ickx compie 80 anni
«Ho corso con ogni tipo di macchina per una vita. Il confine tra un dramma e un colpo di fortuna è minuscolo e quel confine l’ho sfiorato spesso. Molti piloti che avevano più talento di me non sono più qui. Il mio angelo custode si è dato molto da fare».
Il fascino, intatto, al pari della padronanza della lingua italiana con dentro un tocco francese. Una faccia da cinema, da ragazzino che non invecchia, il taglio della bocca simile a quello di Marc Marquez, con gli angoli in su, un nome che pare uno pseudonimo, un marchio. Jacky Ickx compie 80 anni (Bruxelles, 1°gennaio 1945), tre matrimoni, cinque figli, due nipoti, una moglie, Khadja Nin, ex cantante, nata in Burundi, dal carattere straordinariamente esuberante: «Lei è molto più simpatica di me». Ickx ci ha fatto compagnia, ci ha regalato un’avventura ad alta intensità, il pilota più eclettico e vincente tra chi ha mancato il Mondiale F1 nonostante 8 vittorie e 13 pole. Secondo due volte, nel ‘69 con una Brabham perdente; nel ’70 con la Ferrari, quando avrebbe potuto portare via la corona a Jochen Rindt, morto a Monza a quattro gare dalla conclusione: «Meglio così, sono contento che abbia vinto Jochen, meritava più di me». Il resto: campione europeo F2 nel 1967, due titoli iridati Sport-Prototipi nell’82 e ‘83, vittoria nel campionato CanAm nel ’79, vittoria nella Parigi Dakar nell’83, ben 6 trionfi nella 24 Ore di Le Mans. Il primo, 1969, con la leggendaria Ford GT40, partendo ultimo, camminando verso la vettura per contestare quel sistema di partenza, con i piloti che correvano e saltavano in macchina senza allacciare le cinture, troppo pericoloso ed eliminato dopo il suo gesto. Sorride Jacky: «Ah, Le Mans, non ho mai vinto con una Ferrari, ma è fantastico che la Ferrari vinca oggi, che sia riuscita a conquistare l’edizione del centenario quando nessuno se lo aspettava. È il segno di una mentalità, di una abilità, di una tradizione. Nessuna paura di accogliere una sfida. Un bene enorme perché ogni lunedì, in ogni parte del mondo, gli appassionati cercano il rosso, il colore del cuore e del motorismo». Ecco, appunto: 5 anni con Cavallino tra il 1968 e il ’73. Lui, un giovane dotato di gran carattere alla corte del Grande Vecchio. Soprannominato, «Pierino la peste». «Si, sì, fu Marcello Sabbatini direttore di Autosprint a inventare quel nomignolo. Mi fece piacere, significava che avevo personalità. Ma, vede, molte persone quando parlano di Enzo Ferrari, dicono: un grande uomo ma... Lasciano intendere qualche elemento negativo. Io non sono tra questi. Di Ferrari ricordo la tenerezza nei miei confronti, le opportunità e gli insegnamenti che mi ha regalato. Ho compreso più tardi quanto fosse necessario per lui tenere una distanza dai suoi piloti. Molti ragazzi che avevano corso per la Ferrari erano morti in pista, doveva proteggersi, guardare le gare dal suo ufficio, lontano da quelle gioie terribili che conosceva bene. Che uomo, altro che puntini di sospensione».
Ferrari, dunque, un amore che non muore: «Ma no, spero ce la facciano anche in F1. Hanno tutto per riuscirci, tecnici, strutture e una coppia di piloti d’eccezione. Tutti si domandano: che accadrà con Hamilton. Non possiamo saperlo. Lo ammiro per le sue conquiste, i suoi record. Ma ogni ipotesi è strumentale ora. Di certo ci farà seguire i Gp con una attenzione ancora superiore».
I ricordi adesso sono un fiume, toccano due tragedie che l’hanno segnato più di altre. La morte del giovane Stefan Bellof dopo una collisione con la sua Porsche a Spa, 1985, e la scomparsa del suo co-pilota Christian Tarin, Rally dei Faraoni 1991: «Bellof prese un rischio enorme tentando il sorpasso. Ho un solo rimpianto: non mi aspettavo facesse una cosa del genere, una mossa dall’esito fatale. Ai Faraoni invece commisi un errore, non avvertii il pericolo. Ci ribaltammo, la vettura prese fuoco e Christian era un amico caro. Ma deve perdonarmi se non ne parlo volentieri. Sono memorie che stanno in un angolo segreto del mio cuore».
Sarà in Arabia per il suo compleanno, ospite della Dakar, testimonial per Genesis Motor. Torna in Africa appena può perché, come dice «È un luogo colmo di culture, di contraddizioni, fatiche e umanità. Ciò che fa tenere i piedi per terra a ciascuno di noi». Jacky: nessuna nostalgia: «A questa età è un privilegio godere del presente. Ogni giorno mi sembra un regalo. E se guardo indietro incontro molti uomini eccezionali che mi hanno permesso di viaggiare dentro la passione, di vincere e di sopravvivere. Lo dico dopo averne viste di tutti i colori, solo Mario Andretti credo abbia attraversato così tanti universi motoristici. Penso a tecnici, progettisti, meccanici. A chi davvero rende magiche le corse. Noi piloti siamo solo la vetrina, la punta di un iceberg composto da una quantità di persone eccezionali».