il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2024
Squid Game 2, talmente sbagliato da restare stupiti
Se ritenete indigesta la proverbiale minestra, dovete ricredervi: il kimchi riscaldato è peggio. Squid Game, la serie coreana dai record planetari, scodella su Netflix la seconda stagione, con un solo risultato: far rimpiangere la prima. Regista, scrittore e produttore, Hwang Dong-hyuk pare il fratello scemo di quello che, primo asiatico nella storia, vinse per la migliore regia ai 74esimi Emmy. Il successo ha dato alla testa, di certo alla penna: i sette episodi sono scritti col respiro corto, la drammaturgia lasca, la funzionalità – raccordare la prima alla terza stagione – esibita. Sciagurati noi, ché confidavamo nel binge-watching delle Feste e dobbiamo arrenderci all’evidenza: il ritorno del vincitore, il Giocatore 456, verrebbe apostrofato da Fantozzi al pari di una Corazzata Potemkin. Tre anni dopo aver vinto lo Squid Game, Seong Gi-hun (Lee Jung-jae, smunto) si rimette in gioco, intenzionato a smascherare i burattinai e a porre fine alla disciplina poco olimpica che riservano a poveracci e disgraziati, dove l’importante non è partecipare, ma perdere (la vita). Riprendono i loro ruoli Lee Byung-hun, Wi Ha-jun e Gong Yoo, affiancati da un cast inedito e, per resa, indebito: nessuno buca lo schermo, sicché tocca accontentarsi della polemica sulla scelta di Hwang Dong-hyuk di affidare il ruolo della transgender Hyun-ju, che compete per pagarsi le operazioni, all’attore cisgender Park Sung-hoon. Si parte alla ricerca dell’uomo in abito elegante che gioca a ddakji nella metropolitana, si arriva alla ricerca del (nostro, mica Proust) tempo perduto, con un devastante dubbio: ma davvero c’era piaciuto Squid Game? Pallottole che non sforacchiano pareti, militari che si muovono da sinceri pacifisti, “voltamaschera” sui generis e iterazioni a sfinire: tutto il resto è soia.