Corriere della Sera, 27 dicembre 2024
Biografia di Renzo Ulivieri
Renzo Ulivieri, 83 anni, allenatore, dirigente, politico, la vita come un romanzo: da dove vogliamo cominciare?
«Dall’inizio, l’estate del ’44, avevo poco più di tre anni e sono sopravvissuto alla strage del Duomo di San Miniato, quella che ha dato origine al film “La notte di San Lorenzo” dei fratelli Taviani, miei concittadini. Insieme a me è sopravvissuto un altro Renzo, Fermalvento, poi diventato parrucchiere del Paese. Con lui siamo diventati amici e ogni lunedì, quando tornavo a casa, apriva bottega per sistemarmi i capelli. Si parlava di chi se n’era andato e lui diceva: muoiono sempre i soliti, io, tu e Berlusconi siamo immortali».
E invece...
«Invece ora sono rimasto solo e me la sono vista anche brutta. Quattro mesi in ospedale e due a casa, tre operazioni per un problema grave all’intestino, per fortuna adesso risolto. Mi sono dovuto confrontare con la morte, che mi ha marcato stretto, come un difensore arcigno. Ho perso 14 kg e ho temuto di non farcela. La mia fortuna è stata che mi sono sentito male a Roma, allo stadio Olimpico, durante una partita della Nazionale e mi hanno ricoverato al Santo Spirito dove sono stati bravissimi».
Questa esperienza dura l’ha cambiata? Ha trovato la fede?
«Non ho trovato nulla. Però ho fatto molte riflessioni, ho sposato la mia compagna Manuela, mamma della terza figlia, Valentina e ho anche tracciato un bilancio della mia vita. Che è stata bella: non mi sono arricchito, ma ho guadagnato bene e ho fatto quello che mi piaceva fare».
Ha smesso presto di giocare e ha girato sulle panchine di ogni categoria con 5 promozioni.
«Ho allenato uomini, donne, la Nazionale dei carabinieri e quella dei religiosi. E non ho finito qui: sto lavorando a un progetto innovativo che mi piace, il calcio camminato».
Come funziona?
«Si gioca sei contro sei in un campo da calcetto, senza contrasti, senza correre, senza alzare il pallone da terra. È lo sport ideale per noi anziani, fa bene alla salute, fisica e mentale. Ma può essere utile anche per quei genitori che accompagnano i figli a calcio e poi in tribuna non trovano di meglio che litigare. Non siamo soli noi dell’Asso allenatori: l’Uefa ha un progetto importante. Io mi sto allenando a Montaione e Spalletti ci ha regalato i palloni».
Torniamo alla fede.
«Un discorso complesso. Chi ce l’ha è fortunato, aiuta a vivere. Quando andrò nell’altro mondo mi presenterò con una domanda: perché questo dono non mi è toccato? Mia mamma Gina, nata a San Miniato Alto, la zona borghese, era democristiana e cattolica praticante, ogni domenica andava a Messa. Invece mio padre Ivo, comunista di San Miniato Basso, la zona proletaria, andava alla cellula del partito. Ma le racconto un aneddoto».
Prego...
«Quando la mamma è invecchiata e non ce la faceva a muoversi, seguiva la Messa alla televisione, da sola. Un bel giorno mio padre, che aveva sempre scosso la testa davanti a quella scena, ormai malato, si è seduto accanto a lei. Mamma sogghignando mi ha sussurrato: vedi Renzo il tu’ babbo ha paura di morire...».
Lei non ha cambiato strada ma da presidente della scuola allenatori di Coverciano, la più importante del mondo, parla ai suoi allievi di Don Lorenzo Milani...
«Don Milani era di sinistra e la Dc, in quegli anni, lo ha combattuto. Diceva che bisogna dare la parola agli ultimi. Parlo di lui a chi deve interagire con bambini e ragazzi, quelli che dovrebbero sempre ascoltare tutti e non lasciare indietro nessuno. Bisognerebbe cambiare la regola e chiamare maestri gli allenatori dei settori giovanili. Loro devono pensare a formare i cittadini del domani. E noi sappiamo quanto il mondo abbia bisogno di giovani in gamba».
Considera Papa Francesco l’unico leader mondiale.
«Inascoltato. Invoca la fine della guerra e tutti si voltano dall’altra parte. Continuiamo ad ammazzarci per un metro di terra in più di qua o di là».
Comunista sin da ragazzo.
«Ho fatto tutto il percorso: Pci, Pds, Ds, Pd ma poi, ai tempi di Renzi, il partito ha deragliato. Non è rimasto più niente di sinistra. All’inizio le riunioni erano introdotte così: care compagne e cari compagni, care amiche e cari amici. Alla fine, solo care amiche e cari amici. Una volta Bonaccini mi ha invitato a fare un discorso alla festa dell’Unità. Ho risposto che avrei accettato solo se avessi potuto dire: care compagne e cari compagni».
E come è finita?
«C’è stato un boato al mio saluto. Poi però ho scelto di passare a Potere al Popolo e alle ultime elezioni, per dare una mano, mi sono candidato con Filo Rosso a San Miniato. E siamo all’opposizione della Giunta Pd».
Gigi Buffon, nell’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere, ha raccontato che una volta gli ha portato il busto di Lenin.
«È vero, eravamo al Parma, prima della finale di Coppa Italia con la Fiorentina di Mancini. Lui voleva che giocasse Guardalben, io gli ho risposto: allora sei un compagno, per te sono tutti uguali...».
Il busto di Lenin è ancora a casa sua.
«Certo. Una volta a Bologna ho invitato a cena Gianfranco Fini, c’era anche Guazzaloca che è stato sindaco: ho detto loro se dava fastidio potevo toglierlo. Fini, prontamente, mi ha risposto: lo lasci pure dov’è, è uno dei pochi leader che avete avuto».
È tifoso della Fiorentina dichiarato, ma ha detto che si farà seppellire con la tuta del Bologna.
«Si, anche con un fischietto da allenatore e una sciarpa rossa. Sono stato bene in tanti posti, a Modena, alla Samp dove ho allenato il primo Mancini e anche Marcello Lippi. Ma Bologna mi è rimasta dentro. Era un altro calcio, più ricco di umanità e rapporti veri. Ai giornalisti e ai miei giocatori dicevo sempre: se avete un’esigenza potete chiamarmi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Adesso le conferenze stampa sono rare e di plastica».
Però a Bologna ha litigato con Baggio.
«Le rispondo con i numeri: più presenze, più gol e il ritorno in Nazionale. È quanto accaduto con me a Roberto. Qualcuno dimentica che, nel 2010, l’ho proposto a Giancarlo Abete per farne presidente del Settore tecnico. Certo, quelle polemiche non me le posso dimenticare...».
Erano tutti dalla parte del giocatore...
«A quei tempi ero separato dalla mia prima moglie, Marisa, e il lunedì, quando tornavo a casa, dormivo dalla mamma a San Miniato. La sera di Bologna-Juve l’ho trovata sulla porta e mi ha sgridato: ma che hai fatto a Baggio?».
Con Spalletti vi separa una collina...
«Anche tante altre cose. Io però lo stimo, è il c.t. giusto per l’Italia».
Lei è stato tra i primi a credere nel calcio femminile.
«Ho allenato le ragazze per caso, alla Scalise, per sostituire il tecnico che era malato. Il mio primo discorso è stato semplice: bambine, sono vecchio e con le arterie indurite e non ce la faccio a adattarmi a voi, bisogna che siate voi a adattarvi a me...».
Il calcio femminile in Italia fa fatica a crescere.
«È un problema di cultura. Innanzitutto, dobbiamo abbattere ogni barriera: è sbagliata già la differenziazione tra calcio maschile e femminile. Il calcio è calcio. Al Sud la crescita è più lenta, ma al Nord e al Centro negli ultimi anni lo sviluppo è stato forte».
Ha detto che per le sue prime due figlie, Barbara e Elisabetta, non è stato un buon padre.
«Sono stato assente, sempre in giro, un allenatore lo è 24 ore al giorno, anche quando dorme. Ho detto loro che la colpa era mia al cento per cento. Un po’ di tempo fa mi hanno chiamato per rivedere il giudizio. Chissà cosa mi aspettavo e invece mi hanno detto che sono colpevole al 95 per cento…».
Ulivieri, lei è stato un Don Giovanni...
«Diciamo che sono stato infedele, ma per dovere di onestà l’ho sempre ammesso».
È anche un impulsivo. Racconta che Liedholm è stato il suo modello, ma lei in panchina era tutto diverso. Parecchie volte è stato espulso.
«La flemma del Barone la reggevo nei primi 5 minuti. E infatti in quel lasso di tempo nessuno mi ha mai mostrato il cartellino rosso».
Ci racconti di quando si incatenò davanti alla Federcalcio.
«Avevano preso la folle decisione che tra i Dilettanti chiunque potesse allenare senza patentino. Avevo chiesto aiuto alla Lega di A e ai calciatori, ma nessuno mi ascoltava. Così ho preso le catene e delle coperte e mi sono legato. Il presidente Abete, disperato, ha provato in tutti i modi a farmi tornare indietro».
Ora si ricandida a presidente dell’Associazione Allenatori, che guida dal 2004.
«Ci ho pensato molto, specialmente quando non sono stato bene. Qualcuno potrebbe obiettare che sono vecchio, ma dentro ho lo spirito di un ragazzino. E poi non ho scelto da solo. Anche i miei compagni di viaggio, i vice presidenti Camolese, Perondi e Vossi, mi hanno spinto, al pari del consigliere federale Beretta. Non abbiamo ancora finito il lavoro, restano delle cose da fare. La più importante: che ogni squadra affiliata alla Figc sia guidata da un tecnico diplomato».
Alle elezioni federali, il prossimo 3 febbraio, gli allenatori sosterranno Gabriele Gravina.
«Ha lavorato bene ed è in linea con i nostri propositi. Non c’è motivo di cambiare. Il calcio ha bisogno di stabilità».
Ulivieri, come se lo immagina il futuro di questo Paese?
«Sono preoccupato. Soprattutto per come si fa politica, da qualsiasi parte uno la veda. Si urla troppo e non si dice quasi mai la verità. Credo che la sincerità paghi e invece i nostri politici si accapigliano e basta. Molto deludente».