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 2024  dicembre 27 Venerdì calendario

Margalit Moses, 78 anni, che fu prigioniera a Gaza

«Il secondo giorno di prigionia, a un certo punto si presenta un tizio e dice: sapete chi sono? Ho risposto io: certo che lo so, sei Sinwar. E lui: “sì, sono io. Non vi preoccupate, non vi faremo del male. Per noi siete solo merce di scambio”. Nessuno di noi ha replicato, e così com’era venuto se n’è andato». 
Margalit Moses, 78 anni, ci riceve nella sua casa da sfollata, a Kiryat Gat. E mentre racconta i suoi 49 giorni nelle mani di Hamas addomestica la rabbia e il dispiacere. Non usa parole di disprezzo per i suoi carcerieri e nemmeno per il capo dei capi di Hamas che lei vide quella mattina nella sua cella e che nel frattempo è stato ucciso. 
Torniamo al 7 ottobre 2023. Lei era nel Kibbutz Nir Oz, vicino alla Striscia. 
«Mi sono rifugiata nella camera di sicurezza e ho sentito che sfondavano la porta. Sono arrivati in tre: “Vieni con noi”, ha ordinato uno di loro in arabo. Io capisco un po’ l’arabo. Ho chiesto di prendere il mio ventilatore Cpap per l’ossigeno e di vestirmi e me l’hanno lasciato fare. Ricordo che uno di loro disse: io non sono di Hamas, sono Tanzim (è ala militare di Al Fatah, ndr) non devi avere paura». 
Dove la portarono? 
«Ho visto il confine e il passaggio verso Khan Younis. Siamo arrivati fino al giardino di una casa e lì c’era l’ingresso di un tunnel». 
Camminò per molto? 
«Più che altro scendevo. Niente gradini ma una discesa infinita. Sul muro erano scritti i piani, ci fermammo al terzo piano sotto terra». 
E cosa c’era laggiù? 
«Una grande sala con quindici persone di Nir Oz che conoscevo e altre cinque che non avevo mai visto. Si sentiva il rumore dei condotti di areazione, c’era l’elettricità. Uno degli ostaggi aveva una brutta ferita alla schiena. Non l’avevano fatta i terroristi ma la gente del posto mentre quel poveretto passava fra due ali di folla come fosse un trofeo. Anch’io sono passata fra la folla esaltata ma il ragazzo tanzim mi ha protetta». 
È rimasta sempre in quella sala? 
«No. Poche ore dopo ci hanno diviso e spostato. Io sono finita in una camera più piccola con due uomini della mia età fino al mio rilascio». 
Lei parla l’arabo. Comunicava con i suoi carcerieri? 
«Poco. Chiedevo di farci avere qualcosa se ce n’era bisogno e una volta ho chiesto: perché fate tutto questo? Uno di loro ha risposto che così è scritto nel Corano. Bugia. Io conosco il Corano e non è vero. Siccome parlavo con loro mi chiamavano capitano». 
Com’era la stanza-cella? 

«Normale, ma sotto terra. Era piastrellata, aveva cucina, bagno, corrente elettrica...». 
Mai avuto paura? 
«No, anche perché mentre ero là sotto io non sapevo nulla della tragedia enorme del 7 ottobre. Sono stata fra le prime ad essere portata via, perciò non ho visto sangue e devastazione. Nel tunnel credevo che Hamas avesse preso solo ostaggi come merce di scambio». 
Si sentivano i bombardamenti là sotto? 
«Si sentiva la terra tremare e dei boati lontani. Mentre succedeva pensavo sempre: qui sotto sono al sicuro. In questi mesi di guerra ci ho pensato tante volte: se portassero laggiù tutti i civili non ci sarebbero vittime innocenti». 
Come sapevate quand’era giorno e quando notte? 
«Guardavamo gli orologi dei carcerieri e calcolavamo il tempo». 
Come fu liberata? 
«Uno di loro è venuto da me e ha detto: “Capitano, vieni con me”. Mi ha fatto passare da un tunnel strettissimo e alla fine mi ha detto: sei libera. Era il 24 novembre, erano passati 49 giorni, ero uscita dalla parte egiziana di Rafah». 
Quando ha saputo di quel che era successo al kibbutz? 
«Subito. Ma ero così emozionata e felice di rivedere i miei figli che in quelle prime ore di libertà, non ci ho pensato molto. Poi ho visto….». 
È tornata a Nir Oz? 
«Sì, appena ho potuto. E ci vado spesso: faccio da guida a chi vuole vedere che cose orribili hanno fatto i terroristi e che cosa rimane del kibbutz. Io sono sopravvissuta a tre tumori diversi. La vita non mi spaventa».