25 dicembre 2024
Storia dell’epistolario di Cavour
La prima letterina di Cavour giunta nelle nostre mani risale alla primavera-estate 1815; l’ultima è un telegramma vergato il 1° giugno 1861: tra i due documenti epistolari scorre il fiume in piena delle missive scritte o ricevute dal Conte nell’arco di quarantasei anni di vita. Un patrimonio cospicuo e di grande interesse, raccolto ora in modo sistematico ed esaustivo nell’edizione nazionale dell’Epistolario, che accoglie con molti inediti i testi già pubblicati mutili ed ora restituiti nella loro integrità.
Nel fervore rievocativo seguito alla scomparsa repentina dello statista, le lettere cavouriane, specie quelle di carattere politico riservatissime, indirizzate a sovrani e principi, ministri e ambasciatori, emissari segreti e banchieri, erano state da subito oggetto di frenetiche indagini. All’edizione di un primo nucleo pubblicato nel 1862 a cura di Domenico Berti a Torino e di Charles de La Varenne a Parigi, erano seguite ulteriori raccolte, tra le quali le sillogi del Chiala in 6 volumi (1833-1887), del Bianchi (1885), del Bert (1889), del Bollea (1919), e altre minori venute alla luce quando molti personaggi menzionati da Cavour, o ch’erano stati in relazione con lui, non avevano ancora abbandonato la scena. Per lunghi anni le edizioni or ora menzionate, nonostante evidenti infedeltà e incompletezze, fornirono agli storici materia di studio. Il Chiala, disinvolto campione di manipolazioni, omissioni e datazioni arbitrarie, è addirittura ancora oggi ampiamente fruito da studiosi pigri o distratti e da illustri cultori della storia che inspiegabilmente non si avvalgono degli strumenti bibliografici aggiornati.
Della necessità di assicurare alla fruizione testi assolutamente fedeli agli autografi si fece carico, agli albori del Novecento, la Commissione per la pubblicazione dei carteggi del Conte di Cavour, istituita nel 1913 da Giovanni Giolitti e da questi riattivata nel 1920, il cui progetto iniziale, di rintracciare «tutte le lettere edite e inedite» dello statista «dalla precoce adolescenza alla morte immatura», dovette essere rinviato a motivo della mutata situazione politica. Non potendo fare «affidamento» su una «larga, efficace» partecipazione alla ricerca né in Italia né all’estero, la Commissione deliberò di limitare per il momento l’indagine agli archivi dello Stato accessibili, ripartendo i carteggi in ampi fondi monotematici, «separati» e «indipendenti», «riallacciabili in fine con un indice generale». Sicché tra il 1926 e il 1954 videro la luce i 4 volumi del Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, i due volumi relativi alla Questione romana 1860-1861, i 3 volumi su Cavour e l’Inghilterra, che accolsero inoltre lo scambio epistolare tra Cavour e i coniugi Circourt; il volume del Carteggio Cavour-Salmour e i 5 volumi infine dedicati alla Liberazione del Mezzogiorno e alla formazione del Regno d’Italia. Complessivamente 15 volumi cui, in qualità di collaboratrice esterna e poi di relatrice della Commissione nazionale, pose mano la studiosa torinese Maria Avetta, la quale, nel 1956 aprì inoltre con garbo uno squarcio sulla vita intima del Conte, dando alle stampe la raccolta delle Lettere d’amore, ch’ella stessa aveva ritrovato durante le assidue sue frequentazioni del castello di Santena, già depurate da mani pietose delle scorie.
Alla compilazione del previsto Indice generale analitico dei Carteggi risorgimentali dedicò invece le energie giovanili Carlo Pischedda, il quale nel 1961 consegnò alle stampe un dotto eppur agile strumento a corredo dei 15 volumi, rieditati dallo Zanichelli in occasione del centenario dell’unificazione italiana. «Dalla contemplazione e dalla lettura» di quella «imponente collezione», presentata a Santena il 6 giugno 1961, Luigi Einaudi fu indotto a riflettere che non s’era trattato della «manifestazione improvvisa di un genio», ma di un «genio» che si era preparato da anni, e volle sottolineare «da lunghissimi anni», all’ufficio che avrebbe poi esercitato: preparazione fatta di studio costante e di esperienze sul campo, su cui i primi volumi dell’Epistolario avrebbero gettato piena luce.
La Commissione Nazionale, che lo stesso Luigi Einaudi aveva ricostituito nel secondo dopoguerra, assumendone la presidenza, aveva infatti ridato impulso al primitivo grandioso progetto, che oggi è pressoché giunto all’epilogo grazie all’impegno profuso per oltre quarant’anni, con sapienza e pervicacia, dal già ricordato Pischedda, mio maestro e mentore, nel solco del quale ho proseguito in “solitaria” il lavoro.
L’Epistolario di Camillo Cavour nei 19 volumi in 32 tomi stampati tra il 1962 e il dicembre 2008 (i primi due a Bologna, per i tipi di Zanichelli, e i successivi, a Firenze, per Olschki), accoglie poco meno di 8200 lettere scritte da Cavour tra il giugno 1815 e il giugno 1861, correlate a circa 7000 responsive di corrispondenti vari, per un totale di 15200 missive. Cifra davvero ragguardevole, destinata ad aumentare con la stampa del volume XX, in preparazione: in questa Appendice seconda confluiranno circa 500 lettere cavouriane rinvenute o segnalate dopo la pubblicazione dei volumi di pertinenza, ovvero relegate in una sorta di “zona d’ombra” in quanto senza data e talora senza destinatario: ove possibile, viene loro assegnata una data congetturale e un nome. Completerà l’opera il XXI volume con l’Indice generale dei nomi di persona, dei luoghi e degli incipit: novità, questa, introdotta recentemente nel complesso delle regole che presiedono all’edizione.
Secondo l’impostazione originaria, l’opera di norma accoglie la sola corrispondenza privata, o confidenziale o particulière di Cavour, e le sole lettere dei corrispondenti con carattere di reciprocità. Sono dunque escluse sia la quantità incalcolabile di dispacci stilati dagli uffici, quantunque siglati dallo statista, sia la miriade di missive approdate al suo tavolo di lavoro, e tuttavia estranee al dialogo. Tali documenti avrebbero ingigantito l’opera senza rivelare né l’azione personale del Conte né il carattere, gli umori e gli intrecci segreti del gioco politico.
La diaspora degli autografi cavouriani, tanto fragili quanto preziosi e appetibili, risparmiati financo dalla furia distruttiva di eredi e amici votati alla salvaguardia della sacralità dell’icona e poi inspiegabilmente dispersi, impose a monte una logorante ricerca a 360° proseguita nel tempo. Ai ripetuti appelli, lanciati nel secondo dopoguerra dalla presidenza alla stampa mondiale e poi rinnovati, risposero positivamente la Russia, le Americhe, il Giappone; il lavoro di scavo negli archivi pubblici e privati d’Italia e d’Europa, ancorché fruttuoso, fu invece talora ostacolato o quanto meno ritardato dalla rigidità delle norme e dalla cronica penuria dei fondi.
Dal collezionismo, che ha secretato una parte del patrimonio epistolare cavouriano, non sono mancate in corso d’opera segnalazioni preziose, come quelle recenti di una dozzina di autografi inediti o editi soltanto in parte, custoditi a Bains-les-Bains, presso Plombières, di due frammenti in arrivo da Mosca e di alcune missive scovate da Georges Saro a Parigi. In qualità di destinataria della pesante eredità, mi auguro che altre sensibilità consentano di portare ancora alla luce qualche perla da aggiungere, prima che, entro l’estate, sia scritta la parola “fine”, alla collana.
Quali e quante suggestioni può offrire un Epistolario così ponderoso e importante? Ezio Visconti, curatore di una silloge su Cavour agricoltore data alle stampe nel 1913, osservava che le lettere del suo e nostro protagonista «sono vive e animate: mostrano audacie e impulsi» e rivelano un «carattere generoso, fiero, adamantino»; e, affermando che «basta poca pratica per riconoscere da qualche riga la mano che scrive, poiché si ritrova sempre di lui la percezione profonda, netta, senza preconcetti nell’esame delle situazioni», sentenziò: «le sue lettere bastano a se stesse; non hanno bisogno di commenti». Ciò è vero: ma entro i limiti di un approccio informato.
Allo scopo di offrire non soltanto all’élite degli studiosi, ma anche a una fruizione più diversificata e più larga, uno strumento rigoroso e compiuto, la Commissione preposta all’edizione nazionale, mentre non rinunciò a elaborare regole che superassero gli arbìtri altrove introdotti, stabilì dunque di corredare ciascun documento di un apparato sufficiente di note miranti alla segnalazione delle fonti e all’identificazione sia degli episodi più oscuri, sia degli innumerevoli personaggi citati, nonché alla ricostruzione dell’intreccio dei dialoghi.
L’acribia dei curatori ha reso facilmente accessibile il patrimonio di un epistolografo eccezionale quale fu Cavour, dalla prima infanzia alla maturità: un patrimonio in larga parte messo a frutto da Rosario Romeo, autore dell’insuperata notissima biografia cavouriana in quattro tomi: vero e proprio monumento allo statista, alla cui edificazione Pischedda autorevolmente contribuì con segnalazioni limpide e generose.
Prima di sfogliare rapidamente l’Epistolario per percepire qua e là, attraverso la suggestione della parola, il bagliore di uno sguardo o un moto dell’animo, vorrei aggiungere alcune considerazioni sullo strano “mestiere” del curatore di epistolari: mestiere che, in bilico tra la filologia e la storia, è al tempo stesso «troppo» e «troppo poco». Troppo poco, perché questo genere di curatela, come afferma Virlogeux, il caro amico d’Oltralpe che da un triennio e più attende alla raccolta delle lettere di Massimo d’Azeglio, «è una fatica da benedettino che sminuzza la materia e impedisce allo storico di spaziare in sintesi brillanti e intellettualmente eccitanti». Troppo, perché le urgenze della vita limitano il tempo da dedicare alle sfumature minime, che consentono di seguire l’autore «a misura di giornata». Poter tuttavia accompagnare passo dopo passo i pilastri della nostra storia, le cui azioni hanno valore universale, poter entrare in punta di piedi nella loro intimità, poterli interrogare a tu per tu senza remore, è esperienza intellettuale esaltante e unica, un privilegio tanto coinvolgente, da indurre quel gentiluomo di Pischedda a domandarsi se l’amore per il suo Cavour stesse per trasformarsi in odio!
Ma veniamo all’Epistolario cavouriano. Le lettere sono lo specchio che riflette la vita e l’operosità di chi le scrive; se lo specchio tutto sommato è integro le tappe del percorso umano dell’autore sono scandite con sufficiente regolarità: come nel caso di Cavour, scrittore di missive precoce e fecondo, che sino agli ultimi giorni nulla tace di sé. Il primo volume (1815-1840), parte del secondo e segmenti più o meno lunghi delle due Appendici abbracciano venticinque anni. Tanti, se si considera che il secondo e il terzo volume comprendono un triennio ciascuno (1841-1843), (1844-1846), e che ogni successivo volume, da un certo punto in poi ripartito in più tomi, è dedicato a una sola annualità.
Abbandoniamo ad ogni buon conto la contabilità e le giustificazioni che potremmo facilmente addurre, e attenti a cogliere le sfumature, varie nella sostanza e nei toni, ascoltiamo piuttosto la voce di colui che, da enfant terrible egocentrico e pigro si trasforma in uomo geniale e instancabile, pilastro del processo rigenerativo della coscienza italiana.
.«Le cinq de ce mois – scrive tra i cinque e i sei anni Camillo – j’ai dis adieu à Santena, à tous les peupliers, à tous les ormeaux, à tous les sapins et à tous les arbres: dans un mot c’est dit»! Santena, il luogo degli affetti, della spensieratezza e della nostalgia, il premio ora negato al fanciullo che, indifferente alle regole dell’Accademia militare (ove è approdato non ancora decenne), si abbandona alla negligenza e all’indisciplina, ora precluso all’adolescente, che avviluppato nella propria ribellione, già matura opinioni che «roulent sur des idées folles, inconvenantes, ridicules», in netto contrasto con i princìpi professati in famiglia. Sordo sia alla voce materna che gli impone di rientrare « et bien vite dans le cercle dont vous ne devez pas sortir», sia al richiamo del padre che minaccia di spedirlo a «mourir de faim en Amérique», il giovinetto affida i suoi pensieri ai soli interlocutori della cerchia domestica disposti ad ascoltarlo: la nonna Filippina, il fratello Gustavo, l’abate Frézet, e i parenti ginevrini, con i quali, nonostante le divergenze ideologiche, instaura un dialogo fitto e fruttuoso.
Diciottenne, nel confidare allo zio filantropo Jean-Jaques de Sellon il disagio di abitare in una città «où il faut être en garde à tous momens pur ne pas tomber, où l’on ne rencontre que des personnes qui ne vous parlent du théâtre, ou le plus souvent de la chronique scandaleuse de la ville», si rammarica di non vivere stabilmente a Ginevra «où l’on rencontre partout des gens éclairés et instruits avec lesquels on peut causer de choses solides» e lo prega: «continuez à m’illuminer de vos conseils de tems en tems».»
Stretto tuttavia nel vicolo cieco della propria condizione di cadetto «presque toujours en opposition avec tout ce qui [l’]entoure», contrastato per quelle sue «idées libérales», che gli meritano i «reproches les plus sanglans» e l’accusa di aver degenerato dalle virtù degli avi si ribella alla prospettiva di sacrificare sull’altare della «casta» i princìpi e le attese, e dichiara «je dois donc lutter de tout mon pouvoir ce qui pourrait plier le ressort de mon caractère»
Divorato da un fuoco interiore, lavora, studia, legge con avidità tomi su tomi, amplia i propri orizzonti e segue gli eventi. E, fatto più maturo, ricostituisce un rapporto più equilibrato e sereno con i familiari. Ventenne, rivela al padre l’intenzione di abbandonare la carriera militare: «je ne puis en conscience avec mes idées continuer à servir»3, e sostenuto ora dalla madre e dal fratello maggiore, promette «en rentrant dans la vie privée je n’en continuerait pas moins avec ardeur les études que j’ai commencées. Quoique éloigné du mouvement des affaires, je m’efforcerai de me mettre dans le cas de servir ma patrie».
I contorni del vecchio sogno confessato senza imbarazzo alla marchesa di Barolo : «il y a eu un temps où je ne croyais rien au-dessus de mes forces, où j’aurais cru tout naturel de me réveiller un beau matin ministre dirigeant du royaume d’Italie», appaiono dunque sfumati. Non tuttavia svaniti: «J’aime l’Italie et je voudrais la servir..., je voudrai contribuer à son bonheur et à sa gloire», tosto proclamerà a Cesare Balbo, mentre dichiarerà a Mélanie Waldor «ma patrie aura toute ma vie». In questa prospettiva illustra all’antico precettore la propria teoria : «Plus j’observe le cours des événemens, et la conduite des hommes, plus je me persuade que le juste-milieu est la seule politique... capable de sauver la société des deux écueils qui la menacent : l’anarchie ou le despotisme» : teoria che non gli impedisce «de désirer le plus tôt possible l’émancipation italienne des barbares qui l’oppriment».
Sappiamo, attraverso le lettere e altri scritti, con quale slancio, smessa la divisa da ufficiale, il giovane Cavour abbia voltato pagina : e quanto sia diventato, in breve tempo, esperto e innovatore negli ambiti dell’agricoltura, del commercio, dell’economia, della finanza. Conosciamo inoltre il tourbillon degli amori, i meditati silenzi, le esperienze di viaggio: e quell’ironia sottile che da adulto si trasformerà in sarcasmo anche contro se stesso. E conosciamo le storie grevi di «trascorsi» non encomiabili culminati nel dramma.
Esperienze amare, che il saggio Einaudi giudicherà «utili, anzi necessarie», addirittura giovevoli. Sono le peripezie del giocatore d’azzardo a Parigi, «les nuits sans sommeil» con gli amici, «les désespoirs causé par de trop fortes pertes», l’esaltazione delle vincite facili, la febbre «constante», che, trasformata infine in «une espéce de délire», trascina Camillo a rischiare la fortuna in Borsa, uscendone con le ossa rotte. Scatta dunque l’ora del ricorso al padre, quel padre cui il giovane rimprovera di sovrintendere alla «baisse-police» della capitale codina con una «une espèce de passion» inconcepibile. Senza infingimenti il genitore tende la mano al figlio con nobilità d’animo e di cuore. Per l’orgoglioso bon-vivant è il momento dell’umiltà, dell’autocritica, degli impegni solenni e gravi per l’avvenire, e specialmente della precoce rinuncia a ogni idea matrimoniale: «je suis tout décidé à ne jamais plus penser au mariage; c’est peut-être un bonheur por moi; avec mon caractère inégal, j’aurais difficilement rendu une femme heureuse».
Per l’aristocratico campagnolo, che segue le vicende politiche e il moto delle idee dalle risaie di Leri, dalle colline di Grinzane o dalle foreste dei Vosgi, il tempo della solitudine non è ancora venuto. Nonostante il distacco spirituale da Gustavo, lo appagano la ritrovata tenerezza dei genitori, le nuove amicizie e i frequenti contatti, anche epistolari, con il microcosmo di contadini, gerenti, fattori, sensali, notai e avvocati che gli ruotano intorno nell’adempimento della funzione di amministratore del cospicuo patrimonio terriero. Soprattutto lo stimolano i dialoghi che, dall’«enfer intellectuel» di Torino, intreccia con la capitale francese, più aperta e più colta. In quelle righe appassionate egli lancia segnali di tregua, non di resa: «Losqu’on veut vivre en paix en Piémont il faut s’occuper de champs et de prés. Et il faut bien aimer la paix lorsqu’on vit au sein d’une nombreuse famille décidémment opposée aux luttes des opinions er des idées»: il suo freno è dunque ancora la famiglia, una famiglia già impoverita dal lutto, sulla quale veglia, comprensiva e rassicurante, l’anziana nonna Filippina, che alla durezza della prova sa opporre «toute l’ardeur de la jeunesse» e «un coeur de vingt ans».
Ogni ingerenza negli affari del Paese è al momento preclusa a Camillo. A chi lo sollecita replica: «Comment voulez-vous que je vous parle politique, tandisque je vis au milieu des rizières, loin de tout ceux qui aspirent à jouer un rôle sur la scène du monde ? Je m’occupe à rentrer mes récoltes et à préparer mes terres et nullement de ce que fait le Pape ou le roi Charles-Albert. Ma position est telle que je ne puis pas exercer la moindre influence sur ce qui se passe».
Sul finire del 1847, vigilia della carducciana «primavera dei popoli», finalmente la svolta: rappresentata dall’annuncio dell’uscita imminente del «Risorgimento», il giornale «fondato sotto gli auspici di Cesare Balbo», del quale Cavour, che ha ormai superato la difficoltà di «rendre en italien» i propri concetti, assume la direzione. Di qui in poi l’ingresso nell’agone politico, l’ascesa inarrestabile, l’impegno di governo, l’opera di modernizzazione, l’azione diplomatica, la costruzione dello Stato unitario. Un percorso che lascia scarso spazio alla vita privata del conte e ai suoi sentimenti. Circondato, nel prodigioso decennio, da un numero davvero impressionante di interlocutori d’ogni rango e orientamento politico, Cavour combatte la battaglia più ardua contro la propria solitudine di uomo.
Molteplici, e non di natura politica, i motivi di un isolamento rivelati con estremo pudore nelle corrispondenze intime. Tra i più dolorosi la perdita «bien amère» del nipote Augusto, che «sous une forme plus brillante et plus énergique», aveva incarnato un altro se stesso: e, dopo la morte del giovane eroicamente caduto nella battaglia di Goito, il susseguirsi dei lutti per la dipartita della zia Victoire, «le charme de notre intérieur»; della «grand-mére» Filippina, la quercia di casa; del padre vedovo Michele, la colonna spezzata dalla prematura scomparsa di Adèle. A palazzo Cavour l’atmosfera, incupita dal mutismo del nipote Ainardo, è fatta più greve dopo le nozze di Giuseppina, ultima superstite femminile alla guida del ménage quotidiano. In quel frangente lo zio Camillo rompe il silenzio con un laconico «cosicché rimaniamo in casa senza donne». Finita la stagione piena di dolci attenzioni e, nonostante tutto, felice, il potente ministro, oberato di lavoro per il governo della cosa pubblica, si trova tosto a fare il conto della spesa tra le pareti domestiche, onde rassicurare il fratello, sospettoso e taccagno, e psicologicamente malato, che trascina i suoi giorni «sans lire une page ou écrire une ligne», nell’attesa di precipitare, una volta guarito, «dans les préoccupations religieuses».
In un clima tanto sfavorevole, Cavour, lucido e combattivo, con quel suo realismo sostenuto e guidato da un forte «ascendente morale», affronta trattative segrete e dibattiti parlamentari, prepara gli eventi, li dirige o li assorbe, assicura ampi suffragi e costituisce l’Italia. Non senza concedersi lungo il faticoso percorso brevi soste che rievocano la joie de vivre dell’infanzia. Non tanto a Santena, la terra sacra dei ricordi meravigliosi e delle nostalgie struggenti, custode ormai di tante vite spente, quanto a Leri: dimora ospitale e rustica, ove «salvo il vino...tutto è democratico», come la piatta campagna a perdita d’occhio. All’homus publicus gioie innocenti, piccoli svaghi, appuntamenti galanti, e ristoro, sono spesso preclusi. Gli anni più fecondi sotto il profilo politico recano problemi grossi come macigni e dolorosi inciampi. Circostanze avverse sembrano cozzare contro l’auspicio di poter «couronner les efforts de notre Roi et de notre Pays pour constituer une Italie grande, forte, glorieuse, telle que nous l’avons rêvée depuis nos jeunes années». Piegato dagli eventi o dominato dalla collera il grande ministro non ignaro degli intrighi di Corte, talora si dimette, sbatte la porta, abbandona il campo e ritorna.
Nel 1859, dopo Villafranca scrive dal rifugio di Leri: «Vi sono circostanze in cui uno statista non saprebbe mettersi abbastanza in vista; ve ne sono altre in cui l’interesse della causa cui serve richiede che ci si ritragga nell’ombra (…). Uomo d’azione mi do da me stesso in balìa del riposo per il benessere del mio paese». Nel 1860, ripreso saldamente il timone, accompagna a Firenze il sovrano, il quale «accolto piuttosto come un Dio Redentore, che come un Re di questa terra», non rinuncia a rivangare vecchi rancori generati dall’ostilità dichiarata del Conte alla Rosina. Cavour invoca dunque il collega Farini: «liberatemi dall’essere in relazione con chi spinge l’ingratitudine e la rozzezza sino a rendersi intollerabile anche a chi da lungo tempo è avvezzo a non farsi illusioni sugli uomini ed in ispecie sui prìncipi». Sbollita la rabbia, tuttavia ci ripensa e comunica: «Maestà, dopo le parole che Voi ieri pronunciaste, qualunque ministro avrebbe dovuto dare a quest’ora le sue dimissioni. Ma io non sono un ministro qualunque, perché sento che ho ancora troppi doveri verso la Dinastia e verso l’Italia (…). Pertanto rimango».
Dopo una campagna elettorale percorsa da dissidi e sospetti, il cui esito tutto sommato risulta non sfavorevole al Governo, il 18 febbraio 1861 il Re inaugura solennemente il primo Parlamento italiano. La vigilia Cavour stancamente confida a un parente: «Ma tâche est plus laborieuse et pénible maintenant que par le passé. Constituer l’Italie, fondre ensemble les éléments divers dont elle se compose, mettre en harmonie le nord et le midi, offre autant de difficultés qu’une guerre avec l’Autriche, et la lutte avec Rome».
Il 17 marzo la proclamazione del Regno ; e il 23 la formazione del nuovo Governo con i rappresentanti d’ogni area geografica. Il 25 infine il vibrante discorso di Cavour alla Camera su Roma capitale, con quell’accenno affettuoso e dolente alla «città nativa» e al sacrificio che l’attende. Nubi minacciose si addensano intanto all’orizzonte. Il 1861 è l’anno fatidico del traguardo raggiunto, ma anche delle questioni irrisolte: di Roma e di Napoli, dacché le soluzioni vagheggiate per Venezia appaiono al momento inattuabili. È l’anno di scontri durissimi in Parlamento e di battaglie inconcluse. E della deludente prova di Nigra, il brillante pupillo che Cavour «ne cesse d’estimer et d’aimer comme un fils»: il quale Nigra, travolto dai problemi del Mezzogiorno, confessa la propria impotenza: «abbiamo i briganti (…) il clero nemico, (…) gli ufficiali napoletani di terra e di mare irritati, malcontenti, mal ricevuti dai nostri... gli operai inquieti... l’immenso numero dei municipali offesi nei loro interessi»... Come fronteggiare l’«aristocrazia avversa», l’«amministrazione corrottissima», la «pessima stampa», il popolo inerte? Quali forze opporre alla «figura gigantesca di Garibaldi, che grandeggia dal suo scoglio di Caprera» gettando su Napoli «la vasta sua ombra?».
Nelle ambasce dei molti problemi che si abbattono sull’edificio fragilissimo della neonata nazione, e nel delirio di una politica «faticosa e tribolante», perseguita con pervicacia tra ostilità regie e ambiguità imperiali, Cavour consuma i suoi ultimi giorni, sinché si abbandona al riposo: non tuttavia al pago riposo vagheggiato in una promettente vigilia :«une fois [l’] oeuvre achevée, nous pourrons nous reposer (…) de nos travaux».
Mano a mano che, tra lo sgomento del mondo, l’autorevole voce si spegne, incalzano interrogativi senza risposta, suggellati dalla ferale notizia che il 6 giugno Minghetti trasmette a Parigi: «Le Comte a expiré ce matin (…) la politique de Cavour sera continuée». A questo punto all’Epistolario non rimane che una pagina bianca.
Rosanna Roccia
Torino, 10 marzo 2010
Rosanna/Cavour/Carig.
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