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 2024  dicembre 25 Mercoledì calendario

Biografia di Anna Maria d’Orléans

La favolistica occidentale narra di sventurate fanciulle incappate in sortilegi malvagi, cui l’incontro liberatorio col principe dona la certezza dell’amore “eterno”. Le pagine di Maria Teresa Reineri, che con dotta puntigliosità, straordinaria partecipazione e limpida scrittura, dipanano la cronaca, rigorosamente documentata e tuttavia avvincente come un romanzo, della vicenda di Anna Maria d’Orléans, madamigella di Valois, prima duchessa di Savoia assurta alla dignità di regina, rivelano invece sin dalle prime battute una realtà opposta all’improbabile adagio, “e vissero felici e contenti”, che suggella ogni fiaba a lieto fine. Per comprendere questo personaggio, ingiustamente relegato nell’ombra dalla storia, occorre conoscere i tratti salienti  della sua vita tribolata, che l’Autrice ha esplorato con compiutezza e originalità.
            Anna Maria era venuta alla luce a Saint-Cloud il 27 agosto 1669. Condannata sin dalla nascita a misurare la distanza tra  vita e  sogno, come ogni principessa reale era stata avviata precocemente a un apprendistato che, mortificando l’esuberanza infantile, imponeva il rigore delle buone maniere, l’eleganza del portamento, la perfezione dell’eloquio, la disciplina all’obbedienza e al riserbo in vista di un destino imposto da mere motivazioni politiche. Cresciuta all’ombra del Re Sole           suo zio, e prematuramente orfana della giovane madre Enrichetta Stuart, che, bella e seducente, era stata “ornamento della corona”, ambasciatrice del potente cognato e cagione ignara della propria condanna a morte, madamigella di Valois era stata temprata da un’infanzia trascorsa al cospetto degli amori peccaminosi del sovrano, dell’indolenza querula della regina, dell’effeminatezza dispendiosa ed eccentrica del padre. Non le erano tuttavia mancati né la vivacità dispotica  della sorella Maria Luisa, leggiadra primogenita di casa Orléans, né l’affetto solerte e ruvido della  brutta e inelegante Principessa Palatina, sposata dal genitore in seconde nozze;  da ultimo,  le era venuta in più  la compagnia giocosa dei due fratellastri nati dalla strana unione.
            A dieci anni, Anna Maria aveva assistito allo struggente definitivo congedo dal paese natale di una Maria Luisa insolitamente pallida e in lacrime, che il matrimonio con il “Re Cattolico” Carlo II, celebrato con  sfarzo per procura a Fontainebleau, aveva posto diciassettenne sul trono di Spagna con il compiaciuto assenso del “Re Cristianissimo” Luigi. Anche per lei, adolescente docile e introversa, era giunto quindi  il momento di lasciare la famiglia e i luoghi cari dell’infanzia, per un incerto futuro   deciso da strategie imperscrutabili. Un intenso lavorio diplomatico aveva  definito infatti le condizioni per le nozze della principessina d’Orléans con il diciottenne Vittorio Amedeo II duca di Savoia, emancipato per tale evento dalla mal tollerata soggezione all’ambiziosa e scaltra madre  Maria Giovanna Battista, reggente  lo Stato durante la sua minorità.
            Educato non senza  ricorso a pene corporali (a tre anni aveva sperimentato la  frusta !), ammaestrato da sapienti pedagoghi,  avviato  alla pratica sportiva che  aveva irrobustito il gracile fisico, temprato le membra alla fatica e sviluppato la passione per l’arte militare e per la caccia, il giovane era enigmatico, rigido, caparbio, sensibile alle lusinghe femminili ma incostante; e in più, a detta della genitrice, violento, subdolo,  incapace d’affetto. All’incontro con la sposa, che, come una principessa di fiaba,  varcava trepidante il confine della nuova patria, si comportò con  piglio di gentiluomo e  «sguardo assolutamente indecifrabile»: né emozionato, né curioso di vedere in carne e ossa la fanciulla scelta per  calcolo politico e conosciuta solo in effigie. Assolti gli obblighi imposti, e superata senza imbarazzo la liturgia del coucher, che avrebbe attestato l’avvenuta consumazione del matrimonio, sin dal secondo giorno,  distratto e pago, egli s’abbandonò al proprio egocentrismo, lasciando alla sposa ignara le  formalità tediose: né ella, accecata dall’amore, parve accorgersi dell’indelicatezza del consorte. Perfettamente a suo agio nel ruolo di moglie, si mostrò amabile, contenta e, nella terribile  discesa in portantina dal Cenisio, financo impavida. Ritrovato lo sposo a Susa,  giunse raggiante con lui a Torino (20 maggio 1684), e là, rallegrata dall’incanto della luminaria e riscaldata dal giubilo della popolazione, adempì con grazia i  doveri del nuovo rango, non senza esprimere affettuosa deferenza alla suocera, della quale avrebbe tosto vinto ogni preconcetto.
            Quali sviluppi avrebbe avuto il futuro della fiduciosa Anna Maria accanto a un marito incurante e dispotico, tanto preso dagli addestramenti militari e dagli intrighi di governo da dimenticare, a  pochi mesi dalle nozze, il quindicesimo compleanno della sposa? Di stagione in stagione, da una residenza all’altra – Torino, Moncalieri, Venaria, il Valentino- la duchessina iniziò ad attendere i fugaci rientri  di Vittorio, e pervasa da malinconia, dacché le relazioni tra il consorte e il re di Francia davano inquietanti segni di peggioramento, cominciò ad affidare alle passeggiate solitarie i pensieri che non amava condividere con l’ambiente pettegolo di corte. China sullo scrittoio, nel silenzio  delle sue stanze, prese a inviare messaggi affettuosi al padre e lettere teneramente intime alla regal sorella. Alle  missive le due giovani affidarono sentimenti soffocati a lungo, aspettative e delusioni, sinchè toccò alla minore  annunciare d’essere in attesa d’ un bambino.  Dal primo istante, come avverrà nelle successive nove gravidanze (non tutte giunte a compimento) Anna Maria visse «più ritirata e silenziosa che mai» l’avventura meravigliosa della maternità, compagno inseparabile l’elegante calepino su cui avrebbe  via via annotato  la nascita dei figli, che per una sorta di nèmesi crudele la morte avrebbe rapito ad uno ad uno, risparmiando quello che, afflitto dalla disistima dell’imperioso padre, ne avrebbe ereditato la corona.
            All’arrivo della prima creatura (Maria Adelaide, 6 dicembre 1685), una femminuccia che i giochi diplomatici avrebbero condotto giovinetta in Francia accanto al delfino tra le raffinatezze e il lusso ben noti alla madre, il duca, benché deluso, simulò orgoglio e commozione. Poi, sempre più impigliato nella rete del Re Sole,  partì per sedare la ribellione dei Valdesi. Anna Maria, di nuovo incinta, uscì dal  riserbo e inviò con gran dignità ai ministri richiesta d’esser  informata di ogni vicenda, ma turbata dai sciagurati eventi e ancora prostrata dal primo parto,  perdette la creatura che recava in grembo (1686), senza che lo sposo,  rientrato a palazzo, ma tutto preso dai suoi maneggi, sapesse darle conforto. Dopo alcuni mesi una nuova speranza di maternità restituì alla duchessa un fievole sorriso, subito spento dalle plateali infedeltà e dalla «rumorosa e ostentata allegria» del marito, il quale, in occasione d’una misteriosa scappata  a Venezia, la gratificò della nomina a reggente, in riconoscimento della sua lealtà di sposa  e di sovrana. Il 14 agosto 1687 Anna Maria diede alla luce  un’altra bambina (Maria Anna), e il duca, che bramava l’erede maschio, la umiliò designando due popolani ignoti per padrini. Né le offese  erano finite. Mentre la giovane viveva ritirata dedicandosi tutta  alle figliolette, il duca  prese fuoco per la bella e spregiudicata contessa di Verrua, che dopo  lieve resistenza, gli si concesse  con grande riprovazione della corte.
Undici mesi dopo il parto nacque Maria Luisa Gabriella, terza femmina dei duchi sabaudi (17 settembre 1688): all’incolpevole Anna Maria non rimase che rifugiarsi a Moncalieri per sottrarre se stessa e le proprie creature alla mortificante presenza della rivale e all’irritazione del consorte. Su lei, che con grande decoro, continuava «a recitare in pubblico il suo ruolo e ad essere in privato la più amorosa delle madri», s’abbatté improvvisa la notizia della morte della regina di Spagna, sua sorella  (1689): vittima, a ventisei anni come Enrichetta, d’un delitto architettato a Vienna. Il duca decretò il lutto ma, incurante dello strazio della sposa, proseguì le sue oscure manovre d’avvicinamento a quella corte e progettò inoltre  un viaggio  a Nizza, portando con sé la Verrua,  condividendo con lei financo  brevi gite in mare sotto lo sguardo incredulo della moglie legittima. Il ritorno a casa restituì Anna Maria alle sue creature e le tolse per qualche tempo di torno la contessa, che l’11 febbraio 1690, in convento, si sgravò di una bambina. Vittorio, ripartendo per la guerra, reinvestì la moglie della reggenza, ed ella, nuovamente incinta, sostenne con gli ambasciatori di Francia ( e cioè del  proprio paese d’origine) i diritti sabaudi informando d’ogni mossa il duca, arbitro unico delle cose di Stato. Il riguardo non era tuttavia reciproco: quando la morte si ripresentò portando  con sé la principessina nata prematura e con lei la piccola Maria Anna, Vittorio Amedeo ebbe la mancanza di cuore di  conferire alla Verrua una posizione di rilievo nel circolo della povera sovrana, cui ridusse inoltre appannaggio e  personale.
            La guerra frattanto proseguiva: per mano francese il castello di Rivoli e il Regio Parco  erano andati in fiamme e lo stato di crisi esigeva che Madama Reale e la duchessa abbandonassero Torino per una località più sicura. Nel viaggio, il 19 luglio 1691, Anna Maria stremata diede alla luce una bimba morta, frutto della  quinta gravidanza. E il duca pianse: non sul cadaverino della figlia né sul dolore della moglie, ma sui danni causati dall’esercito francese e sulla malattia improvvisa della Verrua.
            Un nuovo vuoto doloroso venne purtroppo a colpire la duchessa: poco più che sessantenne infatti si spegneva (1692)  la comprensiva principessa Lodovica, vedova del cardinal Maurizio, lasciando  in segno d’affetto ad Anna Maria la bella Vigna collinare, nicchia di timide confidenze e rifugio grato al cuore dolente della giovane. Pochi mesi dopo, mentre la guerra proseguiva tra labili alleanze, il duca a Embrun fu colpito dal vaiolo. Sconvolta, la consorte offrì con premura i suoi «servigi» e ottenne di raggiungerlo: incurante del possibile contagio, discreta e consolante, l’assistette con amore  riaccompagnandolo a Torino, ove la malattia si protrasse a lungo.
La diplomazia  ordiva intanto le sue trame mettendo in gioco, per la salvezza del Piemonte, il destino di Maria Adelaide, promessa al duca di Borgogna. Sugli affanni della madre, tenuta  con sospetto all’oscuro, piombò improvvisa la notizia della nuova gravidanza della Verrua, che diede a suo tempo alla luce un  maschio, legittimato al pari della sorella  dal sovrano. Anna Maria subì il grave smacco con il  cuore  gonfio per la partenza  della primogenita alla volta di Parigi. Rincuorata sul contegno della sua figliola, che pur giocando ancora  a “mosca cieca”, apprendeva docilmente i suoi doveri di prossima sposa del delfino, si risollevò un poco. La vera rivincita arrivò quando, spentosi il grande amore per l’amante (che fuggirà da Torino abbandonando le proprie creature), il duca, salvo fugaci passioncelle, sembrò riavvicinarsi alla moglie, che nell’autunno 1697 diede alla luce il tanto atteso  maschio, per vederlo spegnersi subito dopo aver ricevuto l’acqua  battesimale.  Il 6 maggio 1699, infine, tra l’esultanza della corte, Anna Maria partorì  un altro maschio, Vittorio Amedeo: bello, sano e vitale,  l’atteso erede scatenò il tripudio cittadino e procurò alla coppia ducale un attimo di felicità.
            Per poco, in quanto la morte di Carlo II, aprendo la questione della successione al trono di Spagna,  offrì al duca di Savoia la prospettiva di dare  in sposa a Filippo V di Borbone, designato a governare il regno, la figlia tredicenne Maria Luisa Gabriella. Nel corso delle trattative, al solito segrete,  Anna Maria mise al mondo un altro maschio, Carlo Emanuele (27 aprile 1701), la cui nascita consolidò la dinastia:  cupe avvisaglie di guerra impedirono tuttavia alla corte di esultare per l’evento. Tutta presa dalla cura dei figli, la duchessa, serena e appagata, non se ne preoccupò. Tale stato di grazia  non durò però a lungo, poiché la morte improvvisa di Filippo d’Orléans,  padre stravagante ma affettuosissimo che da Parigi aveva sofferto per l’amaro  destino  delle figlie, la ripiombò nel lutto. Piante tutte le sue lacrime dovette tosto farsi forza: il duca, ripartito per la guerra, aveva infatti affidato alla sua saviezza, oltre gli affari dello Stato e  l’organizzazione degli sponsali,  le due creature messe al mondo dalla  Verrua.
            Come colmare il vuoto lasciato dalle deliziose principessine vittime, come la madre, della ragion di Stato? Per accorciare le distanze Anna Maria ricorse ancora allo  scrittoio e, a dispetto della lentezza dei corrieri,  con un dialogo fitto le circondò d’affetto, e soprattutto confortò  la figlia quattordicenne che, sotto il peso della corona madrilena, le confidava scorata: «mi sembra...che la mia infanzia non abbia durato troppo». La guerra intanto non cessava e le apparizioni sporadiche del duca in armi non cambiavano gli umori del palazzo né restituivano fiducia alla città provata dai patimenti. La duchessa, onnipresente,  si mostrò allora ai sudditi cercando con ogni mezzo d’ infondere in essi speranza. Sul finire del 1705 i gigli di Francia giunsero minacciosi  alle porte di Torino: stanca e provata dalla nona gravidanza, Anna Maria partorì il 1° dicembre un maschio «prosperoso e robusto», salutato come duca del Chiablese,  che, dopo soli diciannove giorni, raggiunse nella bara i fratellini.
            Alla nuova pena  s’ aggiunse l’angoscia per il ducato che andava a pezzi; severa, da Parigi, Maria Adelaide scrisse: «Cara madre il più gran piacere che potrei avere in questa vita sarebbe di veder tornare mio padre alla ragione». Nel 1706, a primavera, la capitale si preparò all’assedio, a giugno piovvero le prime bombe. La duchessa, con  suocera e  principini,   riparò nella Repubblica di Genova ove  il soggiorno fu tormentato dall’impossibilità di comunicare con le figlie, prossime a dare alla luce il loro erede.          L’annuncio della vittoria (7 settembre 1706), pose fine al forzato esilio; ma il ritorno  fu mesto, perché il sovrano vittorioso proseguiva in armi la campagna, lasciando come di consueto alla moglie gli atti di governo. Grazie alla di lei solerzia  il 1708 vide finalmente il duca  impegnato a ricomporre i rapporti con le figlie, offese dalla sua politica:  bel successo per Anna Maria che, il 22 settembre 1709,  a quarant’anni concluse con un aborto la sua decima e ultima gravidanza. Né fu questo l’ultimo dolore della sua esistenza; giacché pochi anni più tardi (1712) l’improvvisa scomparsa della  giovane e gaia Maria Adelaide,  seguita nella tomba dal delfino suo consorte e dal loro primogenito, infliggerà una ferita inguaribile al suo cuore martoriato.
 La pace, prepotentemente invocata da questa figlia sventurata, non tardò; nel 1713 il trattato di Utrecht sancì infatti l’accordo tra le potenze europee e la Francia del vecchio re Luigi, e la Spagna si allineò con  giubilo della giovane regina. Ai duchi di Savoia la vittoria offrì in dono il titolo regio e la corona di Sicilia, ma il lungo viaggio a Palermo, ove sarebbe avvenuta la  consacrazione,  fu per Anna Maria un vero incubo. Giunta alla meta dopo aver sofferto, come la maggior parte del seguito, il mal di mare, infastidita dal clima insulare, appesantita dal cibo inconsueto e costretta dal protocollo a frequenti apparizioni pubbliche, cercò  conforto nello scambio epistolare con i figli, con un sospiro confessando: qui «i giorni mi sembrano anni». Della cerimonia dell’incoronazione la neoregina non diede molti ragguagli; gentile sempre, ma incurante dello sfarzo e distaccata, non vedeva l’ora di tornare a Torino per riabbracciare i suoi tesori: «Io non mi diverto lontano da voi – scriveva – e trovo piacere solo nel ricevere le vostre lettere e nell’essere assicurata della vostra buona salute». Il sogno della partenza infine parve concretarsi: ma la gioia svanì allorché come una bomba giunsero da Torino la missiva del figlio maggiore che informava laconicamente la «carissima madre» ch’era morta la «regina di Spagna mia sorella», e il messaggio, al solito più affettuoso, d’ un attonito Carlin, che non si dava pace per  «così grande» perdita.
Il viaggio di ritorno fu mesto e faticoso: difficile godere, sotto il peso di un dolore lancinante e con lo stomaco in subbuglio, le suggestioni del paesaggio. All’approdo l’abbraccio dei figli fu l’unico balsamo per l’animo straziato di Anna Maria, che ripreso il viaggio, il 30 settembre 1714, accanto al re fece il suo ingresso, sotto una pioggia battente, nella capitale parata a festa.
           Le sciagure non erano però finite: il 22 marzo, malgrado le cure assidue e un gran pregare, il vaiolo rapì l’erede al trono. Alla povera regina, annichilita, e al giovane Carlo Emanuele, affranto per la morte del fratello, non fu concesso piangere: le imperiose necessità  politiche imponevano una visita in Savoia, e dunque occorreva ripartire. Smussando ad ogni passo le asperità tra il re, rude e insofferente, e il figlio superstite, timido e impacciato, Anna Maria ripercorse l’itinerario  affrontato  un tempo con la forza dell’adolescenza e una sete incommensurabile d’amore. Ma anche in questo viaggio riapparve lo spettro della morte. La scomparsa del vecchio zio  re di Francia (1° settembre 1715), che lasciava sul trono un bisnipote orfano di cinque anni,  turbò Anna Maria, ravvivò i suoi dolori e scosse il mondo con la sua minaccia alla pace. Alla sagacia della donna non sfuggì  l’ansia  del consorte e l’oscuro lavorìo che  consentì  ai Savoia di  mantenere la corona regia, barattando gli aranceti di Sicilia con la povera Sardegna.
            Dopo tante tribolazioni, il matrimonio dell’erede al trono Carlo Emanuele  con la principessa di Sultzbach aprì una parentesi gioiosa, subito conclusa con la morte per parto di quest’ultima, che lasciava un orfano d’aspetto gracile e un marito affranto. Alla regina non rimase che consolare il figlio e vegliare sul fragile nipote; mentre al re toccò invece il cruccio di trovare un’altra sposa. E di corsa, visto che  dodici giorni dopo la morte della nuora già l’aveva individuata   in Polissena d’Assia. Né il lutto per la morte dell’ottantenne Madama Reale sua madre (15 marzo 1724), pianta con sincerità dalla sola Anna Maria, indusse il sovrano a rinviare le nuove nozze, foriere a suo tempo di un regale, robusto nipotino.
            La bella intesa tra Carlin e Polissena riscaldò il cuore della regina, la cui salute  andava però declinando. Una mortale stanchezza  e l’amaro bilancio di una vita ebbero il sopravvento, ed  il 26 agosto, vigilia del sessantesimo  compleanno, ella chiuse gli occhi sulla sua triste fiaba. Fiaba  compendiata in due immagini emblematiche del  libro, che, come svela l’ Autrice, trae origine dall’identificazione di una giovane ignota effigiata in un ritratto secentesco: nell’una Anna Maria di Savoia, nata Orléans, è bella e promettente, con un serto di rose in mano; nell’altra appare sfiorita e stanca, con   solo spine  in cuore.
 Ma la storia della sovrana sta davvero  tutta e soltanto nelle  sue sventure? Il prelato chiamato in duomo a tenere l’elogio funebre  non aveva mancato di ricordare ai costernati astanti  le «funeste giornate» della defunta, la «lunga e durevole battaglia dei suoi cordogli», le «replicate e spesse (…) percosse» da lei sofferte, ma soprattutto, senza retorica, aveva enumerato le sue virtù. Virtù che, come uno studio recente ha dimostrato (B. Craveri, Amanti e regine, Milano, Adelphi, 2005) erano  ignote a troppe donne di rango  del tempo e  ignote in specie alle  regine  di Francia, tra  cui la principessa d’Orléans era cresciuta.
 «Sempre prudente», Anna Maria non aveva conosciuto l’«arte consumata della dissimulazione», né gli spregiudicati maneggi di una Caterina de’ Medici; «nemica delle apparenze» e di «cuore buono», aveva aborrito le ambizioni, gli egoismi e i rancori scatenati in una Maria de’ Medici dalla  «passione del potere». «Affabile e maestosa», capace sin da fanciulla di distinguere «fra il suo affetto e il suo grado», non s’ era abbandonata alle imprudenze giovanili di Anna d’Austria, né alla gaiezza della sua «seduzione infinita»; e diversamente da Maria Teresa, inadeguata ai doveri della regalità, aveva superato la prova con naturalezza e gran discernimento. Trattata «con studiata negligenza o franca durezza» dal marito, ma venerata dal suo popolo, era stata «impenetrabile e sorda alle lusinghe, parca nell’abbondanza, digiuna fra le delizie, solitaria nelle frequentazioni». Saggia e altruista, inoltre non aveva emulato la sete di potere della suocera, né la sua smania prepotente di lusso e di grandezza.
            Questa è la vera statura di Anna Maria d’Orléans, che una delle più originali e accreditate biografie di Vittorio Amedeo II di Savoia, grande stratega e riformatore dello Stato, si restringe a citare frettolosamente quattro volte, definendola tout-court «moglie esemplare per i modelli del suo tempo e del suo ceto: pia, senza pretese», di «orizzonti»  limitati «ai doveri familiari, alle funzioni di corte e alle devozioni» (G. Symcox, Victor Amadeus II. Absolutism in the Savoyard State 1675-1730, ed. ital. Torino, SEI, 1983). Sbrigativo e inadeguato giudizio,  derivante da una lacuna bibliografica pienamente oggi colmata da Maria Teresa Reineri, la quale grazie a  un ricco apparato documentario in larga misura inedito, è riuscita a  indagare con sagacia ambienti, costumi, regole e riti; a rilevare magnificenze, eccessi e povertà; a  penetrare nell’intimità della  protagonista e dei molti personaggi che affollarono  la sua esistenza.
 Regalando al lettore un racconto ampio e di grande fascino, ella ha restituito il meritato posto nella storia ad Anna Maria d’Orléans, duchessa di Savoia, prima regina di Sardegna:  donna, che nel dolore e nella solitudine di tempi perigliosi seppe sostenere con coraggio e  onore il peso della sovranità.
Rosanna Roccia
Roma, Palazzo Farnese, luglio 2008
           
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