25 dicembre 2024
Sul castello di Santena e l’archivio Cavour
Santena 6 giugno 2010
Potremmo chiederci oggi, come si chiese Sergio Romano diciott’anni or sono, se vi siano «buone ragioni per cui il castello di Santena debba essere conservato alla memoria degli italiani»: inequivocabile la risposta, che scaturisce da considerazioni oggettive e da riflessioni condivise.
Santena è la terra che, nel perimetro dell’estesa tenuta che fu dei Cavour, custodisce le spoglie del grande statista protagonista e artefice del processo unitario italiano: appresso vari congiunti, il nipote Augusto, caduto eroicamente a vent’anni nella battaglia di Goito, rappresenta il doloroso «tributo» pagato nel 1848 dalla famiglia «alla patria».
Delle numerose residenze dell’antica e doviziosa famiglia dei Benso, la dimora di Santena, contigua al sacro sacello, è l’unica superstite, depositaria viva e vitale, della memoria cavouriana.
Edifici emblematici, quali il palazzo avito di Torino, che di Camillo Cavour il 10 agosto 1810 aveva accolto il primo vagito e il 6 giugno 1861 ne aveva racchiuso il respiro ultimo, o anche la cascina rustica, con le terre vaste di Leri, ch’erano state palestra di sperimentazioni, fonte di lucro e amato ricetto, per ragioni diverse furono infatti perduti agli eredi, e al ricordo vivificante di generose attenzioni.
Il castello di Santena sopravvisse invece allo scompiglio seguito alla morte improvvisa dello statista per merito della nipote sua, Giuseppina Alfieri di Sostegno, la quale al fratello Ainardo, follemente avverso alla conservazione delle memorie domestiche, oppose con fermezza la propria riverente tutela.
Ultima discendente femminile dei Benso di Cavour, dotata di intelligenza vivace e raffinata cultura, la nobildonna coltivò il ricordo pietoso del casato d’origine; e, della volontà dei familiari estinti, fu interprete rispettosa e severa. Sicché, tenendo fede al desiderio espresso, morendo, dalla nonna paterna Adèle de Sellon, madre di Camillo, che Santena rimanesse «l’habitation favorite» – la dimora prediletta – della famiglia «pendant la belle saison» – ovvero nelle lunghe estati torinesi, non solo non l’abbandonò, ma pose mano a vari interventi di ristrutturazione e di abbellimento e ne fece il santuario delle generazioni passate e future, consacrando spazi adeguati alle carte, ai ritratti e ai cimeli: soprattutto vi collocò l’archivio privato del celebre zio, dopo averlo riscattato a prezzo di danaro, impedendone il trasferimento in terra straniera.
Questo archivio, prezioso e unico, cui, sin dalle fasi di riordino, poté attingere lo storico siciliano Rosario Romeo per la monumentale biografia che andava componendo, interseca gli archivi di ascendenti ed eredi, incrociati a loro volta con i carteggi plurisecolari di altre grandi famiglie, quali i Carron di San Tommaso o i Visconti Venosta, imparentate con i Cavour per mezzo di alleanze matrimoniali. Dell’insieme, custodito a Santena, è in corso il lavoro di catalogazione, che completerà la rassegna dei repertori a stampa accolti a suo tempo nelle collane della Fondazione.
Il nucleo cospicuo afferente Camillo, inventariato nei trascorsi anni Settanta a cura di Giovanni Silengo, ha alimentato in toto o in parte, le edizioni delle fonti cavouriane, solidi pilastri della storia risorgimentale che nell’ultimo quarantennio hanno visto la luce a opera di valenti studiosi quali Carlo Pischedda e la sua scuola e Giuseppe Talamo: vale a dire gli Scritti in 4 volumi, stampati dal Centro Studi Piemontesi a Torino, i Diari in 2 libri, pubblicati a Roma dall’Ufficio centrale per i Beni archivistici sotto l’egida della Commissione nazionale cavouriana, editrice pur anco del ponderoso Epistolario in 32 tomi, dato alle stampe dapprima a Bologna, per i tipi di Zanichelli, e poi a Firenze, per i tipi di Olschki, presso il quale, grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo, verranno tosto stampati i due volumi conclusivi.
Tra le pieghe di questi lavori immani, Santena, a una lettura superficiale, parrebbe essere stato soprattutto il tenero luogo di sospirate vacanze o la meta suggestiva di ritorni fugaci: e tuttavia il sito immerso nella produttiva campagna in prossimità di Torino, scelto da Cavour quale ultimo approdo in seno alla famiglia già immersa nel sonno, fu, per alcune generazioni della vasta parentela, e per lo stesso Camillo, molto più di un rifugio temporaneo o d’occasione, sia pure assai grato e ricco di charme.
Il castello di Santena, fu scritto, è «un “relais” in un circuito di ville e châteaux che formano complessivamente la patria familiare e intellettuale di Cavour». Collegate l’una all’altra da una linea immaginaria, queste residenze, fu aggiunto, «compongono una “nazione” che non corrisponde a nessuno degli Stati dell’epoca, una sorta di enclave a cavallo tra la Svizzera, la Francia e il Regno di Sardegna». Con le donne e gli uomini, uniti da vincoli di sangue e da affinità elettive, radicati in questa nazione ideale incuneata tra paesi diversi, aperti alle sollecitazioni di una civiltà in marcia «dans la voie progressive», Cavour fanciullo instaurò timidi dialoghi, che negli anni tormentati dell’adolescenza e della prima giovinezza si trasformarono in robusti colloqui capaci di riversare nel suo intelletto linfa preziosa e il necessario alimento.
Nelle lettere dirette da Santena o da Torino a Ginevra e dintorni, allo zio filantropo Jean-Jacques de Sellon, sostenitore della pace universale e fautore dell’abolizione della pena di morte, o alla zia Cécile de Budé, colta e severa, oppure al parente scienziato Auguste De La Rive e al giovane William – cui sarebbe toccato in sorte d’essere il suo primo biografo – il precoce Camillo dibatté questioni sociali, religiose, politiche ed economiche. In tutta libertà poté esprimere quelle opinioni «libérales», come egli stesso asseriva, dettate da amore «pour la verité» e simpatia per l’umanità, e tuttavia osteggiate con forza in famiglia e condannate con severità nell’Accademia militare di Torino, che il giovane frequentava invero senza passione: pur non trovando nei suoi interlocutori concordanza di pensiero, incontrò quella disponibilità all’ascolto di cui sentiva profondamente il bisogno.
Come si avvide ben presto, da quella «provincia europea a cavallo delle Alpi», il cui epicentro ideale era Ginevra, oasi di tolleranza e «carrefour» di culture diverse, era facile guardare a Parigi, a Londra, le grandi capitali a quel tempo degli spiriti liberi. Il passaporto che gli avrebbe consentito di oltrepassare la barriera del conformismo bigotto, e le angustie della pur amata piccola patria, erano i libri: tra i luoghi atti a propiziarne la lettura nelle parentesi concesse all’otium, v’era il castello di Santena, nelle cui stanze s’aggirava silenziosa la nonna savoiarda Philippine de Sales, la vegliarda intelligente e sollecita nutrita dell’esempio edificante del santo di casa e di qualche storia un poco più audace. Non è dato sapere quali opere abbiano riempito fruttuosamente le giornate santenesi di Cavour: i passi riportati nei quadernetti custoditi nell’archivio di Santena non rivelano data e luogo delle avvenute trascrizioni. Sappiamo però che la lettura allargò gli orizzonti del giovane e lo condusse mentalmente in Europa, assai prima dell’età feconda dei viaggi.
Il legame con l’Europa traeva origine del resto dalla geografia di una “patria” più estesa e più aperta, abitata da case e castelli, ove il sogno precoce e ambizioso di svegliarsi un bel giorno «ministre dirigeant du Royaume d’Italie» aveva potuto prendere forma. Nella commistione suggestiva di quella patria tanto varia e ricca di stimoli, popolata di conservatori e liberali, cattolici e protestanti, agricoltori e industriali, pensatori e scienziati, uomini politici, economisti e banchieri, Cavour compì i primi passi della lunga «preparazione di studio e di contatti umani», di cui Luigi Einaudi, cinquant’anni or sono, in questo stesso luogo, nel delineare il percorso formativo del «genio», sottolineò la straordinaria importanza.
La preparazione, fatta di studio e di contatti intellettuali larghi e durevoli, proseguì poi sul campo. A Parigi, a Londra, a Bruxelles, in Olanda, e anche in Franca Contea e nei Vosgi, Cavour maturò vocazioni adulte e rafforzò il vincolo sacro che lo legava a Torino, a Santena, a Leri, agli amati luoghi della terra natìa, ch’era parte della patria sua reale più ampia, l’Italia, per il progresso e per la libertà della quale avrebbe speso i giorni a venire, affinché, come Ella, Signor Presidente, ha ricordato alcune settimane or sono a Marsala, «l’Italia tutta, unendosi» facesse infine il suo«ingresso a vele spiegate nell’Europa moderna».
Rosanna Roccia
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