Corriere della Sera, 24 dicembre 2024
La passione leghista per il Viminale
«Che cosa è mai sfondare una banca a paragone di fondare una banca?». Lasciamolo stare Bertolt Brecht, verrebbe da dire. Se non fosse per la facile parafrasi: perché mai dare l’assalto al Palazzo d’Inverno del ministero dell’Interno, caposaldo dello Stato sul controllo del territorio, quando si può addirittura conquistarlo? Eccolo qui il senso della Lega per il Viminale. Che mica nasce ieri, con il giovane cresciuto all’ombra di Umberto Bossi, e che risponde al nome di Matteo Salvini. Ben prima, c’era Roberto Maroni. Fu lui il primo ministro dell’Interno non democristiano dell’Italia repubblicana. E fu lui, dopo aver fatto passare una notte d’inferno a Bossi, che si schierò con il fondatore del Carroccio, che aveva deciso di affondare Silvio Berlusconi dopo una cena a base di sardine in scatola in compagnia di Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione. Era stato lui, che aveva passato le notti con Umberto e un secchio di vernice a tracciare scritte contro l’unità d’Italia e a favore del Nord, a loro intendere vilipeso e offeso da decenni di campagna sudista della Democrazia cristiana, a salire sul Colle che controlla i prefetti, argine della Nazione contro la secessione.
Pareva fatta, che la democrazia tra tanti difetti ha anche il pregio di conquistare alla causa anche i più recalcitranti. Tra tanti timori l’apparato del Viminale si era ricreduto, perché Maroni, pur leghista, e pur in qualche modo moderato antesignano dei decreti sicurezza, mai sfregiò la tradizione repubblicana. Ma poi, dopo la caduta del governo, arrivò la svolta secessionista, con tanto di indagini sulla Guardia Nazionale Padana.
Archeologia politica, inutile rivangare. Ma la passione della Lega per il Viminale non è mai venuta meno. E venne il giorno, dopo la vittoria elettorale di due ragazzini terribili della politica italiana: Luigi Di Maio, alfiere di Beppe Grillo, e Matteo Salvini, che aveva risollevato la Lega costretta al 4 per cento in cui l’aveva relegata Bossi. I due giovanotti si piacciono, e Salvini potrebbe fare tutto, tranne che il presidente del Consiglio. Danno quello che credono un bidone a Giuseppe Conte, e lui che sceglie? Manco a dirlo: il Viminale.
Ed è dalla tolda del ministero dell’Interno che comincia a sparare su oppositori, alleati e futuri alleati, Forza Italia e Fratelli d’Italia, che immagina destinati a un’obbedienza compiacente e subalterna. È una marcia trionfale, che dura dal primo giugno del 2018 al 5 settembre del 2019, quando è costretto alla resa dopo il delirio del Papeete. Ma che anno! È l’anno della ruspa, con lui che se ne mette alla guida con tanto di elmetto bianco per abbattere la villa dei Casamonica: «Senti che musica – dice sentendo il vibrare del motore – quando vedo una ruspa io mi emoziono, sono un demolitore e un costruttore». O quando si tuffa nella piscina di una villa sequestrata a mafiosi: «Inseguirò i delinquenti nelle case, nelle ville e nei negozi». È l’anno delle felpe: magari non più quella famosa con scritto basta euro, o quella con l’effige di Putin, mezzo del quale vale quanto due Mattarella. Ma quelle con la scritta delle regioni e delle città che attraversa, o quella con la scritta polizia, preludio alla gaffe del figlio che scorrazza sulla moto d’acqua delle forze dell’ordine, antipasto dello scivolone che portò alla crisi del primo governo Conte. Ma in mezzo c’è il trionfo alle Europee, con la Lega che conquista il 34 per cento, ci sono i selfie con migliaia di fan adoranti e soprattutto la battaglia contro i migranti, le navi dei soccorritori bloccate nei porti, fino allo sfondamento della pirata Carola Rackete, l’accusa di sequestro di persone, e infine la trionfale assoluzione con lui che quasi era pronto a affrontare una condanna per coltivare una rivalsa politica.
E adesso si ricomincia. Giorgia Meloni non ne vuole sapere, e si sa che se dice no farle cambiare idea è impresa titanica. Ma quanto piacerebbe a Matteo Salvini rimettere piede al Viminale, ora a suo pensare provvisoriamente occupato dal suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi. Adesso che non ha più cascami con la Giustizia, si chiede perché mai sia necessario perseverare nel lasciarlo in castigo, come avvenne alla nascita del governo Meloni. E certo allora c’era alla guida degli Stati Uniti Joe Biden, che lo vedeva come il fumo negli occhi per la sua vicinanza con la Russia di Vladimir Putin. E adesso c’è Donald Trump, che avrà pieni poteri a gennaio, e che Salvini, per primo nel centrodestra, ha avuto la lungimiranza di incensare già prima che Kamala Harris tentasse una disperata e fallita rimonta. È probabile che quella porta, la porta del Viminale, per lui resterà chiusa. Giorgia Meloni non aveva allora e non ha oggi l’intenzione di permettergli il giochino che strinse nell’angolo Luigi Di Maio, prima che Giuseppe Conte avesse momentaneamente la meglio con la complicità del Pd. E forse anche Salvini dovrebbe sapere che indietro non si torna, un pasto che è stato di soddisfazione una volta, se ripetuto può diventare indigesto. Sempre che invece il progetto del ponte sullo stretto non traballi, e allora scendere dal ponte per tempo potrebbe essere una necessità.