il Giornale, 23 dicembre 2024
Il libro di Sinwar
Una «eccezionale operazione editoriale». Così, sulla home page de «La Luce» viene presentata l’uscita in Italia, oggi, del libro Le Spine e il Garofano, «prima traduzione in una lingua occidentale» del «romanzo». «Una «occasione imperdibile», secondo il quotidiano on line guidato da Davide Piccardo, che nota con una punta di sorpresa come «il romanzo» sia «censurato in molti paesi occidentali» «nonostante sia stato un best seller nel mondo arabo», dove è stato accolto «con entusiasmo» «per la sua autenticità e la profondità della sua analisi». Cliccando per ordinare il volume, proposto a un prezzo di lancio di 20 euro si approda in una pagina di Libreriaislamica.net, dove si apprende che l’opera – inserita nella categoria «Storie di fede», «storia contemporanea» – «intreccia con straordinaria intensità narrativa», i fili della vita dell’autore e della storia collettiva, con «uno sguardo lucido e appassionato».
L’autore? Yahya Sinwar, il sanguinario leader di Hamas, l’ideatore degli attacchi del 7 ottobre, l’uomo che ha concepito il giorno più nero di Israele e del popolo ebraico dopo gli orrori della Shoah, un pogrom in cui sono stati uccisi oltre mille israeliani fra civili, e militari. Moltissimi erano ragazzi e ragazze partecipanti a un concerto: freddati o stuprate senza pietà. O presi in ostaggio. Donne, anziani, bambini.
Il libro è stato scritto durante i 22 anni trascorsi nelle carceri israeliane e l’editore si impegna a promuovere «un dibattito aperto e onesto sulla realtà dell’occupazione e della resistenza palestinese».
Ebbene, era un terrorista Sinwar. A capo di un’organizzazione di terroristi che qualcuno – anche in Occidente – vuole ammantare con delirante, oltraggioso romanticismo di un afflato «resistenziale». Era un terrorista che ha consacrato alla morte dei suoi «nemici» – i civili israeliani – la sua vita e pure la sua morte, il 16 ottobre scorso, quando in una palazzina semidistrutta di Rafah ha concentrato le residue gocce di energia scagliando il suo bastone. Non una preghiera, confacente a un «martire», per quanto fondamentalista, non una frase per il suo popolo. Un estremo gesto d’odio e di guerra come commiato. Questo era. E l’immagine iconica di Sinwar è quella in cui tiene in braccio un bambino impugnando un fucile. Sì perché il «macellaio di Gaza», quella identica violenza, l’ha rivolta contro il suo stesso popolo, tenendolo con Hamas in una condizione di soggezione e privazione di ogni diritto civile e politico, e nutrendolo di un odio cieco che promette solo nuovi lutti da una parte e dall’altra.