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 2024  dicembre 23 Lunedì calendario

Intervista a Richard Gere

Il mondo è sull’orlo del baratro, ma la naturalezza rasserenante con cui Richard Gere espone le sue convinzioni spinge a pensare che, forse, non tutto è perduto: «Dobbiamo provare a tenere aperti i nostri cuori, per ascoltare il dolore dei nostri simili, per interessarci delle tragedie che avvengono ovunque. Penso che tutti noi siamo qui sulla Terra con un obiettivo comune, che è proprio quello di aiutarci l’un l’altro».Nell’agosto del 2019 ha visitato l’Open Arms, ormeggiata al largo di Lampedusa e carica di migranti che non potevano raggiungere la terraferma. L’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini, che aveva impedito lo sbarco, è stato processato e ora appena assolto. Che cosa ne pensa?«Quando sali su un’imbarcazione come quella, cosa che ho fatto in quell’occasione e poi anche in altre, vedi le stesse cose che, in questi anni, abbiamo visto in tanti luoghi del pianeta, India, Honduras, Bangladesh, Africa e anche in America. Gente che cerca una casa, un posto dove vivere, un riparo. In un certo senso siamo tutti rifugiati e, anche se non conosco i dettagli di questo caso giudiziario, penso che, se non riusciamo a specchiarci nelle sofferenze dei nostri fratelli, vuol dire che, come razza umana, abbiamo fallito».L’America ha di nuovo scelto Trump, che effetto si aspetta dalla ri-elezione?«È difficile rispondere a una domanda del genere in pochi minuti. Posso dirle però che di recente sono stato a Washington, per un evento speciale dedicato al Tibet, una campagna internazionale in cui, alla presenza di Nancy Pelosi, è stato proiettato il documentario sul Dalai Lama che ho prodotto. Sono stato in giro, ho incontrato rappresentanti del Congresso, sia repubblicani che democratici con l’obiettivo di capire quale percezione abbiano del futuro che ci aspetta. Sa come è andata? Nessuno ha saputo rispondere».Che cosa la preoccupa di più?«Trovo davvero molto inquietante il fatto che, del governo Trump, facciano parte due tra le persone più ricche dell’intero pianeta e che esse abbiano, quindi, la facoltà di esercitare il loro potere. Il fatto che siedano nell’ufficio presidenziale è per me molto allarmante. Nella Costituzione americana ricorre più volte la formula “noi, il popolo”, non certo “noi, i miliardari”. Dimenticare il popolo americano, quello vero, che non è certo fatto da super-milionari, è la cosa che più mi spaventa, quella che veramente fa tremare se pensiamo alle nostre sorti future. In America, ma anche in tante altre nazioni».Fra gli scenari più preoccupanti c’è quello riguardante il sistema sanitario. Il neo-presidente Trump sarebbe pronto ad annunciare il ritiro degli Usa dall’Oms, nel primo giorno del suo mandato. Che ne dice?«Mia moglie è spagnola e, quando è venuta a vivere con me in America, è rimasta letteralmente scandalizzata nel constatare che, negli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo, non esiste un sistema sanitario pubblico. Per motivi che ancora non sono del tutto chiari il Partito repubblicano si rifiuta di crearlo. È una cosa incredibile, ci ho riflettuto a lungo, la nostra priorità dovrebbe essere proprio la salute, il fatto che tutti abbiano la possibilità di curarsi, di nutrirsi, di avere un tetto, insomma il minimo, le cose più semplici. Credo che se ci impegnassimo tutti in questo senso le cose andrebbero subito meglio. E questo dovrebbe valere ovunque, per tutti i cittadini del mondo. Se ognuno dei nostri Paesi mettesse a disposizione dei soldi per garantire i diritti basilari, gran parte dei problemi sarebbero risolti».La diffusione delle armi è un’altra piaga americana.«Restiamo sconvolti ogni volta che assistiamo alle stragi nelle scuole, con ragazzini che vengono ammazzati, ma la vendita delle armi continua a proliferare e l’esercizio della violenza in Usa è onnipresente, sempre in crescita. Mi sono attivato in questo senso, cerco di promuovere movimenti che controllino la diffusione delle armi».Nel suo ultimo film Oh Canada I tradimenti (dal 16 gennaio nei cinema) interpreta, diretto da Paul Schrader, il documentarista Leo Fife che, prossimo alla fine della vita, rivive la sua giovinezza, a iniziare dalla fuga in Canada per evitare di andare a combattere in Vietnam. Lei è nato nel ’49, in un’America molto diversa da quella di oggi. Che ricordi ha di quel periodo?«Faccio parte esattamente di quella generazione che ha ricevuto la prima chiamata al fronte, quando è scoppiata la guerra in Vietnam. Era un periodo molto particolare, c’è stato come un risveglio universale, una voglia di reagire da parte dei ragazzi di allora, di dire no a quello che stava succedendo, forse anche perché gli orrori dell’Olocausto e del Secondo conflitto mondiale erano ancora vicini e allora quei giovani hanno saputo dire “no, non voglio essere parte di una nuova guerra"».Ha rimpianti?«Ha una giornata libera? Ce ne vorrebbe almeno una per poterglieli dire tutti. Certo che ne ho, credo che ognuno di noi, nell’arco della propria esistenza, sappia di essersi comportato male nei confronti di altre persone, in modi più o meno gravi, e che questo ci abbia fatto vergognare di noi stessi».