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 2024  dicembre 23 Lunedì calendario

Debole o forte, il dollaro resta re

Il famoso declino del dollaro sembra finito. Se mai è davvero iniziato. Tutto il mondo sembra volere investire nell’economia degli Stati Uniti: risultato, la loro valuta è tornata molto forte. Sì, ci risiamo: il cosiddetto biglietto verde – per quanto per lo più smaterializzato – è di nuovo in testa all’analisi e alle scommesse di investitori, governi, banche. Quando si muove, verso l’alto o verso il basso, produce onde alte in tutto il mondo: c’è chi ne è felice e c’è chi ne soffre. Nel 2025, il suo tasso di cambio non sarà solo uno degli elementi più influenti per l’andamento delle economie e dei mercati finanziari, sarà anche al centro di contenziosi politici.
Donald Trump dice di volere un dollaro debole per migliorare la bilancia commerciale. Gli altri Paesi non sarebbero felici se si indebolisse troppo. Probabilmente, però, non si indebolirà troppo, almeno per un po’, perché proprio le politiche di Trump alla Casa Bianca promettono di rafforzarlo. Non è detto che nell’anno entrante assisteremo a una guerra valutaria ma confronti duri, in particolare tra Washington e Pechino, sono prevedibili.
La settimana scorsa, per comprare un euro servivano 1,04 dollari: ancora a fine settembre ne servivano 1,11. Non siamo lontani dalla parità. Non la si era più vista dal novembre 2002 se non per un brevissimo, straordinario periodo nel 2022 durante la crisi provocata dalla pandemia da Covid. Per avere un’idea di quanto si sia rafforzata la valuta americana: nel marzo 2008, l’euro valeva 1,58 dollari. Lo Us Dollar Index – usato dalla Federal Reserve per misurare la valuta degli Stati Uniti rispetto a un basket di sei delle principali altre valute, compresi euro, yen e sterlina – lo scorso settembre era attorno alla parità (cento) e da allora, in meno di quattro mesi, è salito a oltre 108, in direzione del limite alto della fascia 90-110 in cui ha fluttuato da prima della Grande crisi finanziaria. Con lo yuan cinese è sui massimi dal 2007, rispetto alla rupia indiana è al massimo storico.
Il dato di fatto è che l’economia americana sta andando meglio di gran parte delle altre, le imprese Usa fanno ottimi profitti, le Big Tech attraggono denaro da ovunque con le loro promesse legate all’intelligenza artificiale. Succede poi che, mercoledì scorso, il governatore della Fed Jay Powell ha sì tagliato i tassi d’interesse dello 0,25% ma ha fatto sapere che non è affatto detto continui a farlo nel 2025. Ciò, mentre con ogni probabilità altre banche centrali continueranno invece a ridurre il costo del denaro, in testala Bce di Christine Lagarde, vista la debolezza dell’economia europea. Tassi più alti incoraggiano l’arrivo di altri investimenti dal mondo. Non solo: ad agire a favore di un apprezzamento della valuta americana ci sono le aspettative legate a Trump, sempre incerte vista l’imprevedibilità dell’uomo, ma potenzialmente di grande portata.
Se imporrà dazi – di almeno il 60% sui prodotti cinesi, del 10-20% su quelli europei, del 25% sulle importazioni da Messico e Canada – come ha promesso e minacciato, ciò comporterà un aumento dell’inflazione, dato il costo maggiore delle importazioni, le quali non potranno essere del tutto sostituite dalla produzione interna dato l’alto livello di occupazione e la scarsa capacità produttiva inutilizzata negli Stati Uniti. La crescita dei prezzi sarà combattuta con un aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, il che porterà altro denaro sul dollaro. Stesso effetto avranno probabilmente i tagli delle tasse promessi, i quali faranno aumentare la domanda domestica e quindi l’inflazione.
Pechino e gli europei saranno in buona misura felici di vedere le loro valute indebolirsi e quindi di avere un vantaggio nell’export. Non sarà però felice Trump, il quale potrebbe addirittura assistere a un peggioramento della bilancia commerciale, alla quale tiene infinitamente, nonostante i dazi imposti a Cina, Messico, Canda, Unione europea. Come reagirebbe in un caso del genere?
Come durante il suo primo mandato da presidente, Trump inizierebbe probabilmente accusando la Cina e forse l’Unione europea di svalutazione competitiva delle loro valute. Già oggi, però, c’è chi ipotizza che a un certo punto si possa andare verso la qualcosa di simile all’Accordo del Plaza del 1985, durante il quale il G5 – al tempo costituito da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Germania – concordarono la svalutazione del dollaro rispetto a marco tedesco, sterlina, franco francese e yen, attraverso interventi sui mercati valutari. Funzionò, il dollaro, che dal 1980 si era apprezzato del 50% rispetto alle maggiori valute, perse valore e l’accordo fu poi sostituito, nel 1987, da quello del Louvre.
Nel 1985, presidente era Ronald Reagan e segretario al Tesoro James Baker, il quale condusse la trattativa con l’obiettivo di rendere più competitive le esportazioni americane e ridurre il deficit commerciale. Ora, lo stesso obiettivo potrebbe averlo Scott Bessent, il segretario al Tesoro scelto da Trump, se volesse tentare quello che è stato definito un «Mar-a-Lago Accord». È un uomo di finanza, viene dagli hedge fund, è stimato sui mercati. Ciò nonostante, un Plaza Due modello Florida sarebbe meno facile di questi tempi, sia perché i rapporti tra Paesi sono molto più tesi che negli Anni Ottanta sia perché nella trattativa entrerebbe certamente Trump – il grande negoziatore, come egli stesso si considera —, a piedi uniti. Probabilmente minacciando ulteriori aumenti dei dazi. Allo stesso tempo, però, uno scambio tra una riduzione dei dazi americani da una parte e una svalutazione solo modesta dello yuan sarebbe gradita a Xi Jinping, alle prese con le difficoltà dell’economia cinese. Margini per un accordo potrebbero esserci. E non è nemmeno detto che, venendo al dunque, i dazi saranno poi così massicci.
Le previsioni sull’andamento delle valute, infatti, non fanno parte dell’elenco delle scienze esatte. Le variabili che è quasi impossibile considerare sono molte: non solo i tassi d’interesse, la crescita economica, i profitti delle aziende le stabilità finanziarie di decine di Paesi; anche – e non è affatto poco – la geopolitica, cioè quello che c’è nella testa di Vladimir Putin, di Xi Jinping, di Kim Jong Un, degli ayatollah iraniani e dello stesso Trump.
Resta il fatto che, per il 2025, i grandi investitori puntano su un rafforzamento del dollaro. Deutsche Bank prevede la parità con l’euro nel corso dell’anno.
La forza del biglietto verde non è solo un problema per gli americani che vogliono esportare «trattori», come ha detto Trump. È un onere che può destabilizzare le finanze di più di un Paese indebitato in dollari. Con conseguenze politiche seria
Debole o forte, il dollaro resta re.