La Stampa, 22 dicembre 2024
Intervista a Mario Capanna, sessantottino
Mario Capanna, nelle mattine d’autunno, non si rintraccia con facilità. È stato a lungo impegnato nella «sacra raccolta delle olive» – così lui la chiama – sui tre ettari scarsi di terreno che coltiva da trent’anni nelle colline umbre. «Ci ho messo diversi giorni, insieme a due valenti marocchini, assai esperti in materia», dice l’ex leader del movimento del ’68 al telefono di casa (non ha mai avuto il cellulare) e si avverte che questo, in quei giorni, è ciò che gli è interessato di più.
«Mario Capanna, gran latinista di Città di Castello», scriveva Camilla Cederna quarant’anni fa. Non sembrava una battuta.
«Perché una volta, in effetti, in latino parlai davvero: a Bruxelles, nel novembre 1979. Ero europarlamentare di Democrazia proletaria, stavo combattendo per costituire un gruppo, quando un deputato cristiano-bavarese mi disse: “Taci, ignorante”. Un’accusa bruciante. Preparai così un discorso in latino spiegando che nell’antica Roma era la lingua con cui si diffondeva il diritto tra i barbari».
La sua famiglia?
«Povera. Sono nato in un villaggio medievale umbro, Badia di Petroia: 200 anime, compresi gli asini e le pecore. A sei anni persi mio padre. Il maggiore dei miei fratelli si trovò a mantenere tutta la famiglia. Fu un’anziana maestra, vedendo la mia ansia di imparare, che lo convinse a farmi studiare».
A 18 anni si iscrisse a Filosofia alla Cattolica di Milano.
«Mi segnalò il vescovo. “Eccellenza – gli dissi – pensavo di studiare a Perugia: è così comodo, a una cinquantina di chilometri da casa”. E lui: “Ma sei matto? Vuoi mettere il prestigio della Cattolica?”. Feci l’esame di ammissione per il collegio, l’“Augustinianum”, e ottenni la borsa di studio grazie alla media molto alta».
Fu proprio in Cattolica che iniziò il Sessantotto.
«Nell’agosto del 1967, mentre l’università era chiusa, venne approvato l’aumento delle tasse: diventò l’ateneo più caro d’Italia. Appena riaprì, iniziammo a riunirci. Tre mesi dopo si decise l’occupazione: alle tre di notte la polizia irruppe col rettore Ezio Franceschini alla testa. Non gliela perdonammo mai».
Neanche lui: a gennaio venne espulso.
«Fui iscritto d’ufficio all’università statale più vicina, come prescriveva il regolamento della Cattolica. Mi cacciarono anche dal collegio e mi trovai sul lastrico».
A marzo ci fu una nuova occupazione: insieme ad altri studenti, finì in una cella di sicurezza della questura.
«Restammo qualche ora, poi una delegazione composta tra gli altri dal sindaco socialista Aniasi e da Craxi ci disse: “Il questore vi lascia andare se da domani farete opera di moderazione”. Ovviamente rifiutammo».
Che rapporto aveva con Aniasi?
«Buono, era uno con cui si poteva dialogare. Aveva fatto la Resistenza: un gran valore».
E con Craxi?
«Nessuno. Diffidava dei movimenti, pensava fossero troppo caotici».
Alla fine, in carcere, ci finì sul serio, per il cosiddetto sequestro del professor Trimarchi alla Statale di Milano.
«Con le nostre lotte eravamo riusciti a ottenere che, in caso di esame andato male, il professore restituisse allo studente lo “statino” senza l’apposizione del voto negativo, così da potersi ripresentare senza rovinare la media. L’unico a non praticare questa conquista era il giurista Trimarchi appunto. Ci demmo appuntamento nella sua aula per contestarlo, ma non ci fu alcun sequestro».
Fu condannato a 11 mesi con la condizionale. Prima del processo fece in tempo a farsi qualche settimana di galera.
«Coi miei compagni ne approfittammo per studiare. Si pose il problema di come sostenere gli esami. Un gran docente come Mario Dal Pra accettò di venire a San Vittore, ma il colloquio doveva essere pubblico: così, il direttore del carcere radunò tutti i secondini che assistettero alla sessione con occhi stralunati».
Gli studi di filosofia le tornarono utili anche in campo sentimentale. Il poeta Nanni Balestrini raccontò che lei preparò un trattato di settanta cartelle per convincere la sua ragazza, cattolica praticante, a fare sesso prima del matrimonio.
«Scrissi non solo che si poteva, ma che fosse doveroso. Tutto supportato dalla visione di San Tommaso e Sant’Agostino: conoscere vuol dire entrare in profondità nella comprensione delle cose. Andò bene».
A un certo punto girò voce che fosse diventato l’amante dell’imprenditrice Giulia Maria Crespi, allora proprietaria del Corriere della sera.
«Una balla colossale, diffusa da Mino Pecorelli e avallata persino da Andreotti nella rubrica che teneva sull’Europeo: si disse persino che durante la mia latitanza ero nascosto nella sua tenuta».
In quei giorni era accusato di un altro sequestro: quello del rettore della Statale, Giuseppe Schiavinato. Fiutando il mandato di cattura, lei si nascose per settimane.
«Un grande avvocato come Carnelutti diceva: “Se ti accusano di avere messo incinta la Madonnina di Milano, prima scappa e poi dimostra la tua innocenza”. E così feci».
Pochi anni dopo fondò Democrazia proletaria. Da leader di quel partito, incontrò anche Arafat e Gheddafi. Che ricordo ne ha?
«Il primo, in realtà, lo conobbi al Congresso nazionale degli studenti palestinesi nel 1970, durante il cosiddetto “settembre nero”, con gli attacchi dei beduini giordani. Ne nacque un rapporto assiduo, ci amavamo come fratelli».
E di Gheddafi?
«Lo incontrai con una delegazione di partito nell’86, dopo il bombardamento americano della sua residenza. Era incuriosito dal fatto che questi quattro matti italiani fossero andati in Libia a cercare di dialogare».
Nel 2015, insieme ad altri ex, fece ricorso contro il taglio dei vitalizi. Se ne è pentito?
«Nient’affatto. Il problema non era solo il provvedimento scriteriato di quegli stupidotti dei grillini, ma soprattutto l’idea che si potessero tagliare i diritti con un provvedimento retroattivo. Se fosse passato, sarebbe potuto capitare anche ai più deboli».
Cosa pensa di Meloni?
«Tignosa, determinata, una buona combattente. Come tutti i capricorno, non va presa sottogamba, anche se ha un difetto che di solito noi di quel segno non abbiamo: conta spesso balle. Ma questo fa parte della propaganda conservatrice».
Cosa rimane, oggi, del ’68?
«È stato, ed è tuttora, un fenomeno carsico: più volte le sue idee si sono inabissate e più volte sono riemerse. Ma la cosa più importante è che ci sia stato: da allora sappiamo che cambiare il mondo è possibile».
Ma nel 2024 ci si può ancora definire rivoluzionari?
«Sì. Ma serve superare questo micro-materialismo volgare di oggi che abita i nostri cuori e per cui ognuno sacramenta dentro di sé. Mettiamoci insieme e torniamo a dire “non ci sto”. Anche in questo, il ’68 può insegnare ancora molto».