il Giornale, 22 dicembre 2024
L’infelicità degli Agnelli
L’infelicità degli Agnelli mi è sempre apparsa un mito comodo. Sono sempre stati loro stessi a raccontarci le sciagure – tutte, tranne la povertà della dinastia, tramite i guitti della reggia, condendole in modo tale da uscirne con una medaglia sul petto, e sovvenzioni statali in tasca. Anche quando Edoardo, povero figlio, si gettò da un cavalcavia, schiantandosi sul greto di un torrente arido come il padre, invece di avvolgere il poveretto di pietà, tutti si precipitarono a rendere onore all’Avvocato di cui il giovane non aveva compreso l’amore severo ma giusto. Ci spiegarono i lacchè, con la penna e la voce di circostanza, che davvero il denaro non dà la felicità, ma con il cavolo che questa stirpe rinuncia a un cespito patrimoniale, o regala al popolo un Monet o un Modigliani.
Dalla lettura delle loro liti con la descrizione delle loro lacerazioni affettive e depressioni connesse, motivate dalla spartizione della pecunia tra eredi di Gianni e della di lui vedova Marella, sono uscito, come penso la maggioranza degli italiani, pure un po’ incazzato: ci hanno già portato via tutto, hanno spazzolato finanziamenti e regalie della collettività senza mai perdere l’appetito, e adesso rubano ai povericristi anche l’esclusiva dell’infelicità. Insomma, ci hanno stufato.
Ecco però che ritengo necessario riferire una notizia riguardante gli Agnelli. Mi si è incollata addosso, l’ho riletta tre volte per crederci. Noi scusate se allargo il mio io – riteniamo infatti che sia impossibile per dei bambini ricchi crescere infelici. Li immaginiamo magari costretti a vestire alla marinaretta, sottoposti a noiose lezioni sul modo di maneggiare le posate, obbligati a imparare i convenevoli in dieci lingue, ma vuoi mettere le comodità che noi non ci siamo mai sognati, tipo un cavallino a dondolo con le ali che vola davvero, una bambola che ti fa i compiti e mangia al tuo posto la minestra, eccetera. Invece siamo stati messi di fronte a una tragedia che racconta quanto di più tremendo possa accadere a una creatura. Essa confesso – ha catturato i rari neuroni del mio cervello come una calamita fa con le pagliuzze di ferro. A differenza delle precedenti fanfaluche esce dalla cornice dei disguidi tra miliardari. Impone una attenzione generale perché la cosa tocca tutti e ciascuno, il destino personale e quello nazionale. Ci chiede che cosa voglia dire metter su famiglia, quali responsabilità comporti educare i figli, si chiamino essi Lapo, Jaki, Ginevra (Elkann) o Giorgetto, Samantha e Vanessa (Esposito o Brambilla).
Mi rifaccio a quanto riportato dai quotidiani in merito a un reportage del settimanale francese Le Point su John Elkann e alla vita trascorsa in famiglia da lui e dai nipotini prediletti dall’Avvocato quand’erano bambini e poi appena adolescenti. Affetti familiari carenti, baci e abbracci latitanti? Macché. Violenza e ancora violenza. In balia di una madre intoccabile, una madre al di sopra di ogni sospetto. Naturalmente la versione è quella di John, il primogenito, la madre ha diritto di replica, e infatti ha restituito il colpo, ma non mi è parsa convincente.
La prova che John non mente sta nelle vicissitudini che hanno angustiato l’esistenza del fratello minore Lapo. È quella tipica di un ragazzo che trascina la memoria di percosse, punizioni, schiaffi, umiliazioni inflitti proprio da colei che doveva essere il tuo rifugio, e che vorresti chiamare quando vedi solo buio, ma non è possibile, lei è cattiva.
Un caso di scuola, quello di Lapo, botte e infelicità, solitudine da bambino, e subito dopo la sequenza di guai in cui si è cacciato come una condanna fatale.
Fino a una storia di finto rapimento a New York, la purificazione dolorosa da una dipendenza dalla droga, una genialità trafitta da cento spine.
Ha confessato John o Jaki che dir si voglia (sempre Mister Fiat è) riguardo a mamma Margherita Agnelli che, dopo la fine del primo matrimonio che generò tre figli, ella si unì a un nobile russo, e per adeguare i piccini di 6 (John), 5 (Lapo), 3 anni (Ginevra) cercò in ogni modo di trasformarli in piccoli russi ortodossi, usando le mani e i piedi. Soprattutto si accanì (racconta il primogenito) con Lapo.
Dopo quaranta anni di silenzio o di frasi mozzicate, adesso la rivelazione è piena. Essa è credibile perché vergognosa, indicibile, specie se si è nobili per diritto di grana, che pesa di più che quello di sangue.
Margherita desiderava che i figli diventassero copia del nuovo padre, soddisfacessero i desideri di lui, dal quale ebbe altri cinque figli.
La Stampa il 12 settembre 1975 descrisse, usando pastelli rubati a Biancaneve, il matrimonio della figlia del Re: «(Lui, Alain Elkann, parigino, figlio del rabbino capo) È un giovane alto di un’eleganza tranquilla e il sorriso allegro (Lei) Una corta zazzera bionda riccioluta spicca tra i lampi dei fotografi. Al braccio del padre Margherita Agnelli sembra più esile e minuta di quanto non sia. Giovanni Agnelli, presidente della Fiat e della Confindustria, sindaco di Villar Perosa, oggi è soltanto un padre felice. Il sì di entrambi è forte e chiaro».
Il divorzio, la nuova vita, fu una deportazione da nipoti dello zar per i tre rampolli renitenti. Trasferiti a Buenos Aires, lavaggi del cervello. Immagino il maggiore che cerca invano di difendere il fratellino, e l’obbligo di non denunciare le tenaglie psicologiche e i cazzotti a ripetizione. Perché Non sta bene, non si fa. Il nonno Avvocato sapeva? Ma certo. Adottò misure che salvaguardassero la pelle dei nipotini e insieme la reputazione della famiglia: teneva con sé i perseguitati, ma non agì legalmente. Per ripagarli li mise sopra Edoardo nella linea ereditaria e di comando. Finì come non doveva per E. Con la fuga nella droga a Malindi, e poi quel salto da un cavalcavia presso Cuneo, più brutto e triste di una Fiat Duna.
Le mie sono deduzioni. Si reggono sulla pratica di vita della mia professione che mi ha messo a contatto con infinite storie di abbandono e solitudine di ragazzi costretti a una vita grama dal privilegio dato da uno o dall’altro genitore alla fatua felicità di un’altra storia d’amore rispetto al dovere educativo verso la prole. Una avventura piena di venti impetuosi e profumi di fiori fiabeschi, ma per il solito gonfia di rimorsi che il denaro per i figli mollati non rimedia. La moda del pensiero fluido impone di seguire i sentimenti, va’ dove ti porta il cuore: una idea della vita che ritengo disastrosa. Preferisco le scelte declassate dalla crème a infame ipocrisia borghese, ma che fanno prevalere il diritto della prole su quello dell’avventura romantica da principi e principesse sul pisello che marcisce in fretta.
La morale della fava Elkann? Ricchi o poveri che si sia, non si educano i figli con le sberle e con gli insulti. Chiamatelo amore se volete. Io ho pudore a usare la parola. Mi accontento di voler bene.