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 2024  dicembre 22 Domenica calendario

Intervista a Gianfranco Ravasi

Se Paolo non fosse mai esistito è probabile che il cristianesimo avrebbe imboccato tutt’altra strada. O magari sarebbe rimasto confinato nelle prime comunità tra paura e fanatismo. Martirio ed esaltazione. Chi è dunque l’uomo che ridisegna il destino di un’intera religione e che può a buon diritto essere ritenuto un rivoluzionario che crea una nuova tradizione? Gramsci lo ricomprese in una battuta: il Lenin del cristianesimo, la definizione solo in parte sembra accontentare la curiosità intellettuale di Gianfranco Ravasi (fresco del Premio De Sanctis), biblista finissimo, esegeta di questioni ebraiche che alla figura di Paolo ha dedicato un libro  – ricco di dottrina e di passione – per ricostruire la vicenda storica e teorica dell’apostolo (Ero un blasfemo, un persecutore e un violento, Raffaello Cortina editore). Di più: lo pone nella coscienza stessa del Novecento, lacerata dalle numerose letture che vengono proposte: da Nietzsche (ultimo lembo dell’800) a Renan, non proprio teneri con l’apostolo; da Karl Barth a Jacob Taubes, a Giorgio Agamben che privilegiarono La Lettera ai Romani.

Lei apre il libro con un forte richiamo a Pier Paolo Pasolini che nel 1968 progetterà un film su Paolo.
«Pasolini non era nuovo alle figure del cristianesimo. Aveva già realizzato Il vangelo secondo Matteo e il film su Paolo – di cui c’è solo l’abbozzo della sceneggiatura – era un progetto che lo riportava ai temi del sacro a lui cari, ma anche all’attualizzazione del suo operato: Roma e il suo impero sostituiti da New York centro del nuovo imperialismo. Aprire con il richiamo a Pasolini per me vuole dire quanto tormentata e moderna sia la figura di Paolo».

Lo definisce più insonne che inquieto, come se il tempo non gli bastasse a tessere la sua opera.
«Nella Lettera ai Corinzi Paolo dice che il tempo si è contratto, si è abbreviato».

A quale tempo allude?
«Al tempo storico non a quello escatologico. Lo percepisce come schiacciato, sollecitato da una frenesia che noi contemporanei conosciamo bene e che Paolo anticipa con il suo comportamento, con la sua maniera di comunicare spesso dettata dall’impulso».

Fisicamente com’era?
«È stato descritto come un uomo di bassa statura, calvo, le gambe arcuate, il corpo vigoroso».

È anche un uomo che si sposta velocemente, coprendo distanze allora considerate enormi.
«È stata studiata la mappa dei suoi viaggi ed è impressionante per i mezzi di allora. È un uomo “transfrontaliero” nasce a Tarso, cittadino romano, ebreo, inizialmente ortodosso».

Un cosmopolita. Ma anche uno che impara a conoscere bene le terre in cui oggi si combatte, si fugge, si muore.
«C’è uno scarto abissale tra quel mondo e gli odierni drammi. La “via di Damasco” di Paolo segna la svolta nella sua visione universale al punto da indurlo a dire che non esistono più differenze di sesso e di razza».

Eppure va giù pesante sulla donna: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione”.
«Certo, può apparire offensivo al nostro orecchio contemporaneo. Ma ogni testo va compreso nel suo momento storico. Paolo è vissuto dentro un orizzonte greco-romano e giudaico dove la donna ha un ruolo secondario».

Quindi come comportarsi nella lettura del testo paolino o più in generale della Bibbia?
«Non serve una lettura letterale, diciamo pure fondamentalista. Occorre un’interpretazione appropriata che vada oltre la contingenza temporale degli usi e dei costumi di allora. Nel nome di Cristo Gesù, Paolo dice: non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina».

Come si spiega questa straordinaria apertura all’universalismo e al contempo la durezza e la determinazione del suo cristianesimo?
«Mentre Gesù abbraccia col cuore, Paolo ha l’urgenza di dover organizzare un sistema. Da un lato possiede tutta la carica passionale, dall’altro mostra la potenza intellettuale. Gli occorre una certa durezza per far convivere i due aspetti».

Ha ragione Gramsci che lo definisce “Lenin del cristianesimo”?
«C’è un fondo di verità. Ma basta leggere bene le sue lettere per capire quanto lo stimolo in lui nasca dalle situazioni roventi. Non è un pensatore asettico, si lascia coinvolgere. Nella seconda Lettera ai Corinzi dice: l’ho scritta tra le lacrime».

Si commuove ma è anche intellettualmente duttile.
«Filone d’Alessandria dice che Paolo è il sapiente sulla frontiera. Dialoga con tutte le comunità. Avverto in lui tutta la modernità e l’eclettismo vertiginoso. Riesce ogni volta a spiazzarmi».


È duttile anche verso il potere. Nell’accettare quello romano si distanzia dalle comunità cristiane e dalla tradizione giudaica.
«Paolo riconosce il potere civile di Roma. Nel cristianesimo delle origini, in un contesto culturale e mentale diverso, prevale l’idea di apocalisse che tende a rigettare il potere romano. C’è anche una ragione storica siamo sotto la persecuzione del potere di Nerone. Paolo tratta poco questo aspetto. Ma ha fiducia nella magistratura romana. Anche quando è agli arresti a Cesarea, in attesa di essere trasferito a Roma, continua a proclamarsi cittadino romano».

Perché viene arrestato?
«Il racconto degli Atti degli apostoli ci dice che inizialmente va nel Tempio e porta con sé un collaboratore di origine pagana. Lo accusano di aver violato la sacralità. Si scatena un tumulto. Il potere romano lo arresta ma, in un certo senso, lo salva dal linciaggio. Poi le lungaggini della burocrazia romana fanno sì che resti per un po’ in carcere a Cesarea Marittima dove è in custodia. Solo in seguito una nave lo condurrà a Roma».

Che tipo di detenzione è stata?
«A Cesarea, dice Luca negli Atti,Paolo poteva ricevere e liberamente discutere con “parresia” che è una prerogativa del cittadino romano il quale può parlare in pubblico. Quanto poi alla sua fine non abbiamo dati neotestamentari. Ma verrà condannato all’esecuzione capitale».

Nell’iconologia attorno a Paolo la sua conversione è rappresentata dalla caduta da cavallo. È un apocrifoo un episodio davvero accaduto?
«Paolo usa pochissime frasi per indicare la via di Damasco. E a proposito della conversione usa un verbo greco che significa «io sono stato afferrato dal basso».  Scandisce anche un “prima e poi”: prima ero un blasfemo, un persecutore, un violento e poi un credente. Se leggiamo la narrazione che se ne fa negliAtti degli apostoli si capisce che è una sorta di illuminazione quella che vive Paolo che lo fa incespicare e cadere in terra e lo acceca. È un’esperienza personale cui gli altri assistono. Non c’è altro. Nella storia dell’arte si è imposta la caduta da cavallo, quasi fosse la sceneggiatura di un evento sconcertante. È Caravaggio a portare all’estremo questa immagine. Chi capisce in profondità Paolo è Michelangelo: mentre un fiotto di luce scende, la mano di Cristo cerca di afferrare Paolo. È il tema della charis, della grazia, che Michelangelo esalta».

Il capolavoro di Paolo è La Lettera ai Romani. Perché è un testo così importante?
«Intanto si compone di seimila parole greche su un corpus di 33 mila. È una lettera complessa difficilmente sintetizzabile che affronta il problema della grazia. È un testo per farsi accettare dalla comunità cristiana di Roma. Alcuni capitoli della lettera sono dedicati all’importanza del giudaismo, all’eredità che ha lasciato, all’alleanza dei padri. Paolo vi affronta il tema del giusto e della fede».

La fede viene per Paolo prima dell’azione.
«Effettivamente la fede, la pistis, è l’elemento decisivo. Ma per Paolo essa implica un atto di volontà, di libertà. Puoi non credere. Ma se credi devi scegliere di credere».

La lettura che ne dà Karl Barth privilegia l’idea di incommensurabilità tra uomo e divino. Lei cosa ne pensa?
«È una lettura protestante. Sullo sfondo si intravede Lutero che ritiene La Lettera ai Romani decisiva per la Riforma. Occorreva cancellare quell’eccesso di opere che stava trascinando il cattolicesimo alla deriva».

Accanto alla lettura protestante c’è quella di Jacob Taubes: l’ebreo che ritrova in Paolo lo slancio messianico.
«Taubes percepiva Paolo come un fratello. L’esegesi paolina oggi tiene conto di questa interpretazione per cui effettivamente Paolo è debitore della tradizione giudaica. La sua concezione del tempo abbreviato va in quella direzione».

Si può anche tradurre come il “tempo che resta”.
«Il tempo abbreviato è il tempo apocalittico di chi pensa che siamo alla fine. Invece è il tempo che abbiamo qui e ora, il tempo che resta, che dobbiamo vivere con il massimo dell’intensità sapendo però che ci sarà un dopo. La visione greco classica è invece quella di un tempo ciclico. Un accenno lo si trova anche nelQoèlet: “Non c’è nulla di nuovo sotto al sole”».

Oggi che è in pensione e libero dai numerosi incarichi come vive il suo tempo che resta?
«In questo caso è anche un tempo anagrafico. Sono assaltato da richieste per lezioni e conferenze. Ho scoperto in libertà i sentieri di altura della scienza che da profano non osavo praticare. Sono attratto dalle neuroscienze, dalla genetica dall’intelligenza artificiale. Ricoeur diceva: viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’anoressia dei fini. Come umani abbiamo il compito di cercare un significato a tutto questo e qui entra la domanda morale, esistenziale, personale. Ecco la forza della religione».

Per secoli la religione è stata il motore e il collante delle comunità. Ma oggi lo è molto meno.
«Parliamo del cristianesimo. Abbiamo avuto periodi in cui eravamo maggioranza, padroni della piazza pubblica. Adesso – lo dice papa Francesco – dobbiamo essere consapevoli di costituire una minoranza. Che non significa minorità, che non vuol dire chiudersi in un’oasi protetta. La minoranza autentica – pensi al Cristo – è agire come spina nel fianco. È l’immagine che usa Paolo».

Come si può essere oggi “spina nel fianco”?
«Non accontentandosi di vivacchiare nella temperie. Cercando, ancora una volta, di porre con forza i grandi temi del Vangelo. Per quel poco che contiamo dobbiamo far passare le figure emblematiche come papa Francesco».

Nell’ultimo conclave lei era in lizza per il soglio. Che cosa pensa di ciò che poteva essere e non è stato?
«Non si è mai posto come problema. Io stesso non me lo ponevo. Non c’entra l’umiltà. Nel momento in cui si sale su quel soglio si entra in una dimensione completamente diversa. Non c’è apprendistato».

Vuole dire che al di là del meccanismo elettivo subentra la “charis”, la grazia?
«Per il credente è questo che conta, che deve contare.Altrimenti sei un papa del Rinascimento che entra politicamente già con un progetto in testa».

Tra un paio di giorni è Natale. Dove lo trascorrerà?
«Nel mio paese di origine. Prima lo festeggiavo con la mia famiglia intera. Adesso con le mie due sorelle. Per noi il Natale era la tavola attorno a cui ci riunivamo, il cibo, gli affetti, i doni, le preghiere, la casa paterna. Abbiamo conservato la stessa disposizione dei posti a tavola come quando c’erano mia mamma e mio papà. Quegli spazi ora sono vuoti. Bernanos nel romanzo L’impostura racconta di un prete che perde completamente la fede ma deve continuare a svolgere la sua professione. Bernanos dice: per lui la fede in Dio non era più un’assenza ma un vuoto.Ecco quelle sedie vuote sono per me un’assenza. Coloro che un tempo le occuparono non ci sono più ma è come se ci fossero ancora. La loro presenza è viva. Il mio augurio è: se abbiamo un posto vuoto a tavola rendiamolo disponibile per chiunque voglia bussare alla porta. È il vero gesto d’amore».