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 2024  dicembre 22 Domenica calendario

Quelli che scrivono per responsabilità, come Tolstoj

Di gente che pensa che il mondo sia un posto sostanzialmente sbagliato ce n’è parecchia. Assai più modesto è il numero di individui disposti a farsene carico provando a raddrizzarlo. Idealisti, così li chiamiamo. Animati da convinzioni forti e da un desiderio di verità e giustizia, si adoperano per imporre la propria visione delle cose.
Nel mondo della letteratura è raro che tali impulsi virtuosi diano vita a qualcosa di più concreto di un libro, un articolo, una conferenza o una presa di posizione pubblica. Non mancano gli esempi di dedizione che hanno comportato sacrifici personali ben più onerosi. Si pensi agli scrittori che hanno perso la vita lottando contro sistemi autoritari. Ma persino loro non avevano altro da donare alla causa se non la vita, un’arma che contro un regime si rivela quasi sempre spuntata e inefficace.
Parliamoci chiaro, paragonata a quella dello statista o del condottiero, la capacità di uno scrittore di incidere sul mondo appare incommensurabilmente più modesta. Le sole armate su cui può contare sono il ragionamento, il cosiddetto spirito critico e nei casi più probi l’esempio. Eppure lo scrittore-responsabile – lo chiameremo così – non può fare a meno di sentirsi implicato.

A distinguerlo dagli altri scrittori è un’irriducibile necessità di comunicare, un bisogno fomentato da un altrettanto feroce impulso pedagogico. Tormentato dal proprio privilegio, sente il dovere di mettere le conoscenze che ha e il lavoro che svolge al servizio del prossimo. Non solo è convinto che la letteratura possa cambiare il mondo, ma ritiene che se non tenta di farlo non è letteratura. Depositario di una verità universale da cui deve sgravarsi al più presto, coltiva un’idea dell’arte del tutto strumentale. Nei momenti di maggiore esaltazione arriva a credere che il proprio contributo sia necessario, e che la sua opera, agli occhi della comunità di lettori, avrà nerbo e valore solo se saprà incidere sui costumi e sulla società come una battaglia per i diritti civili.
Quella che di primo acchito può sembrare una forza cela in realtà una profonda debolezza. Per non cedere allo sconforto, lo scrittore-responsabile deve scendere a patti con la propria impotenza. Da qui, forse, gli accessi di indignazione cui spesso si lascia andare.
Naturalmente anche in questo caso le posizioni sono oltremodo variegate. Se non per il desiderio di imporre il proprio credo, sono pochi i punti di contatto tra il vate e il mandarino, tra il rivoluzionario e il conservatore, tra l’artista impegnato e l’iconoclasta.
Per chi come me appartiene a un’altra confraternita, per chi non ha mai firmato petizioni, né marciato per alcuna causa, per chi, insomma, per vocazione e temperamento si è votato al disimpegno, non è facile parlare dello scrittore-responsabile con il dovuto rispetto. Eppure dovrei saperlo: la vita dello scrittore-responsabile è tutto fuorché una passeggiata. A fomentare la sua passione non è certo la convenienza e il conformismo. In alcuni casi sarà anche così. Di opportunisti e impostori è pieno il mondo. Su questa orda di filistei, se non vi spiace, stenderei un velo pietoso. Mi pare più proficuo volgere la mia attenzione su coloro che, ardenti di sacro fuoco, sono stati costretti dalle circostanze a fare i conti con una realtà esecrabile. Sarebbe stupido negare che le opere migliori di Albert Camus, Bertolt Brecht e George Orwell abbiano tratto spunto dal profondo disagio politico in cui viveva chi le ha scritte. Il pathos morale che emerge da testi come La peste, L’opera da tre soldi e 1984 è talmente palese da contagiare anche il lettore più disimpegnato.
Poiché le aspettative che questo genere di idealisti ripone nel proprio lavoro di rado vengono soddisfatte (il mondo è quello che è, non sarà certo l’impegno di un autore a stravolgerlo), è del tutto naturale che finisca per scontrarsi con il leopardiano «arido vero». Una frustrazione che ci mette niente a degenerare in collera. A scanso di equivoci vorrei chiarire che la rabbia dello scrittore-responsabile ha solo una somiglianza vaga con quella dello scrittore-che-odia della settimana scorsa. Se per il primo l’ira è un effetto della delusione, per il secondo è una condizione preliminare, una sorta di partito preso.

L’errore più sciocco che si possa commettere a questo punto è identificare lo scrittore-responsabile con uno specifico periodo storico: la turbolenta stagione a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del secolo scorso dominata in lungo e in largo dal magistero di Jean-Paul Sartre e della sua cricca. Non è così. Il richiamo alla responsabilità è molto più antico. Ne troviamo traccia nel Rinascimento italiano, nell’Inghilterra elisabettiana e certamente nella grande rivoluzione illuminista francese.
Un caso che mi sembra particolarmente emblematico è quello offerto dal conte Lev Tolstoj. Viste dalla prospettiva di qualsiasi altro scrittore di minor talento (quindi quasi tutti), le posizioni di Tolstoj, e le scelte che ne scaturiscono, appaiono oltremodo bizzarre, e in qualche caso persino inaccettabili. Il disprezzo che Tolstoj da un certo momento della vita mostra per il suo sovrumano dono di creatore è qualcosa che chi (indegnamente) fa il suo stesso mestiere stenta a comprendere. I sentimenti dello scrittore comune nei confronti del genio riottoso di Tolstoj non sono molto diversi da quelli dell’indigente che strabuzza gli occhi di fronte alla scelta del milionario di liberarsi dei suoi averi per vivere una vita più austera. Del resto, al contrario di Flaubert, il conte non nutriva alcun dubbio su sé stesso. Privo di ipocrisia qual era, Tolstoj aveva piena cognizione del suo genio e del posto eminente da lui occupato nella storia della letteratura universale. Non aveva nessuna difficoltà a collocare sé stesso accanto a Omero e a dichiararsi superiore, sia artisticamente sia moralmente, a William Shakespeare. Ad angustiarlo erano le ragioni stesse dell’arte. Con il passare degli anni e l’irrigidirsi delle sue concezioni, non solo iniziò ad avvertirne la sostanziale inutilità ma anche i potenziali pericoli.
La storia è proverbiale. Siamo a metà degli anni Settanta dell’Ottocento. Tolstoj è alle prese con il suo capolavoro più ispirato: Anna Karenina. Sta lavorando all’ultima parte del romanzo quando viene assalito da una crisi morale così straziante da mettere in discussione il nucleo della sua vocazione. Attenderà di portarlo a termine per decidere di sacrificare la carriera artistica sull’altare di un impegno umanitario venato di pauperismo evangelico. D’un tratto avverte che la fiction pura, per cui ha un dono impareggiabile, non gli basta più. Dedicare la propria vita a scrivere storie inventate al solo scopo di intrattenere un pubblico di suoi pari è un atto sconsiderato che lambisce l’immoralità. «Ora basta!» si dice il conte pieno di irritazione per sé stesso, «è tempo di metterci una pietra sopra». Grazie al cielo, non riuscirà a tenere fede fino in fondo ai suoi propositi. Continuerà a comporre capolavori di inestimabile valore come La morte di Ivan Il’ic e La sonata a Kreutzer. Persino il suo romanzo più ideologico e meno riuscito, quel Resurrezione che gli avrebbe dato parecchi grattacapi, al netto dei suoi intenti pedagogici soffusi di cristianesimo, contiene scene e personaggi di straordinaria potenza artistica. A interessarmi però è l’impegno teorico che caratterizza questa seconda stagione della vita artistica di Tolstoj, un impegno che si traduce nel celebre Che cos’è l’arte?, la cui stesura coprì quindici anni.

A distanza di un secolo e passa dalla sua pubblicazione, quel testo continua a rappresentare una pietra miliare della speculazione estetica tardo-ottocentesca, e non solo. L’importanza di queste pagine non deriva, infatti, solo dal prestigio di chi le ha compilate ma anche dal fatto che esse sono in aspra polemica con i tempi in cui vennero alla luce. L’avversione tolstoiana per la deriva presa dalla letteratura della sua epoca è irriducibile. Nulla gli è più indigesto della cosiddetta retorica fin de siècle, che a suo dire infesta soprattutto le lettere francesi. Per lui la Francia è il Paese che più di qualsiasi altro fonda la propria identità sulla letteratura, tributando agli scrittori ogni sorta di onore. Il suo rifiuto dell’art pour l’art trae linfa dall’avversione per scrittori del calibro di Flaubert, Baudelaire e Mallarmé.
Particolarmente irritanti mi sembrano i giudizi detrattivi che Tolstoj rivolge a Baudelaire, ossia al massimo poeta francese del diciannovesimo secolo, cui preferisce autori decisamente meno grandi e assai più educati come Lamartine e Musset. Ma è proprio da qui che vorrei partire, se non altro perché questi giudizi racchiudono il succo dell’intera argomentazione tolstoiana, che in modo forse improprio potremmo considerare una sorta di populismo estetico: «La visione del mondo di Baudelaire consiste nell’innalzare a teoria un grossolano egoismo, e nel sostituire alla morale il concetto di bellezza assolutamente artificiosa e indistinta come un’ombra. Baudelaire preferiva un volto femminile truccato a uno naturale, e gli alberi di metallo a quelli veri, e l’acqua minerale a quella naturale».
Considerando i giudizi non meno severi riservati ai grandi artisti della sua epoca – da Mallarmé a Huysmans, da Wagner a Berlioz, da Manet a Pissarro – appare chiaro che Tolstoj intende fare tabula rasa dell’arte migliore prodotta dal suo tempo. Le sue idee esprimono in modo pedissequo la sordità del classico demagogo delle lettere (ce n’è uno in ogni epoca). La sua furia iconoclasta non risparmia contumelie neanche ai grandi del passato: Shakespeare, Aleksandr Puškin, persino l’ultimo Beethoven. A sdegnarlo è l’estenuazione cui le composizioni di costoro indulgono, il loro sostanziale ermetismo, la gratuita raffinatezza rea di ispirare nel pubblico fantasie bizzarre e immorali, e noia e perplessità in chi non è in grado di comprenderle. Ciò rende Tolstoj senza ombra di dubbio il santo patrono degli scrittori-responsabili, coloro che attribuiscono alla letteratura un valore formativo.
D’altro canto, se davvero pensi di aver qualcosa da insegnare, devi imparare a farlo con parole semplici, lottando per non essere ambiguo, o peggio ancora, oscuro. Un proposito virtuoso che induce Tolstoj a interrogarsi sul senso più profondo della vocazione artistica. Perché si scrive? Come è più giusto farlo? Per raggiungere quali obiettivi? L’idea puskiniana secondo cui il fine ultimo dell’opera d’arte è il piacere – di chi la realizza e di chi ne fruisce – lo indigna. Così come il pregiudizio di chi ammira solo opere e artisti di difficile fruizione.
Sorvolando sul fatto che personalmente stento a immaginare un artista che più di Tolstoj sia capace di dare piacere al lettore, e un romanziere dalla tecnica più complessa, resta il fatto che, sulla faccenda, ha il sacrosanto diritto di pensarla come vuole. Ed è chiaro che la pensa in un modo che insulta le mie più profonde convinzioni. Tolstoj deplora chiunque scriva per «passatempo», per passione, chiunque persegua obiettivi meramente edonistici. Per lui il fine ultimo della letteratura non è il piacere, ma il bene. E non un bene qualsiasi, non un bene opinabile, ma quello sancito dalle Sacre Scritture, e quindi da un credo religioso inalterabile. Ritiene che l’arte debba mettere in comunicazione l’uomo con Dio. E che il compito dell’artista sia quello che i cattolici attribuiscono ai preti: il ruolo di intermediario. Proprio lui che diffida del clero, crede nella funzione dell’artista come tramite tra Dio e il popolo. Occorre precisare, per amor di verità, che sebbene le opere migliori di Tolstoj – i racconti giovanili, l’autobiografia, Guerra e pace e Anna Karenina — non perseguano in modo diretto questo alto ideale religioso, testimoniano tuttavia una tensione morale che mette la religione al centro della scena. Nei momenti più felici i suoi capolavori esprimono in forma altissima questa accorata aspirazione alla trascendenza. Da Pierre a Levin, passando per Andrej e la sorella Mar’ja, non c’è eroe tolstoiano che non porti su di sé il peso di un conflitto etico. In questo senso, almeno in questo, niente di ciò che scrive nel suo pamphlet può essere considerato un’abiura dell’opera precedente.
Comunque, il vecchio Tolstoj ha un bel lottare contro la sua stessa natura. Ha un bel mettere in campo tutte le sue risentite teorie sull’arte. Di fatto non c’è argomentazione che possa cancellare il suo sovraumano talento nel dare piacere al lettore. Può detestare Shakespeare, può avversare Puškin, può esecrare Baudelaire, ma non può odiare sé stesso né ripudiarsi. Lui è nato per raccontare storie, per dare vita a personaggi complessi e sfaccettati, per cantare le delizie dell’amore romantico, l’incanto della danza, il tedio della vita coniugale e gli orrori della guerra. A dispetto delle sue idee sull’arte, resta il fatto che la sua vena è naturale e squisita, tanto quanto le sue ambizioni sono epiche.