La Lettura, 22 dicembre 2024
La storia di Guernica
Una vicenda da film. Ne è protagonista uno tra i capolavori dell’arte del XX secolo, intorno al quale ruota una trama ricca di colpi di scena, da scandire in diversi capitoli. Il soggetto di questo involontario kolossal potrebbe essere costituito dagli studi di Genoveva Tusell, approdati, nel 2017, a El Guernica recobrado (Cátedra), un ampio volume esito di una lunga investigazione archivistica tra documenti inediti, il cui epilogo è rappresentato dalle ricerche – tuttora in corso – sulle rivisitazioni e sugli omaggi al dipinto picassiano eseguiti da eredi e da epigoni: un work in progress che continua ancora oggi e di cui «la Lettura» presenta una selezione.
Il primo capitolo: la gestazione. Tra l’1 e il 9 maggio 1937, scosso dal massacro nazista della città basca di Guernica, rinchiuso nel suo atelier parigino, in preda a un furor creativo, Picasso realizza un olio su tela di ampie dimensioni, destinato a decorare il Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi. Un lavoro fabbrile, tra rabbie, dubbi, ripensamenti. Centinaia di disegni, per rendere ermetici alcuni riferimenti veristici e ideologici. Attingendo a un vasto repertorio di immagini (Michelangelo, Rubens, Goya, François Topino-Lebrun, de Chirico, la scultura antica, i manoscritti apocalittici cristiani), Picasso si fa inviato speciale. Immortala l’impatto emotivo di una devastazione, attento a rimodulare quello choc in una prospettiva poetica. Con rabbia e indignazione, «filma» uno sterminio. In lui, c’è l’orrore di chi ha l’ambizione di dipingere un’opera che faccia sentire l’inchiostro dei quotidiani, ma sia priva del loro carattere effimero. Sembra comportarsi come chi ha appreso da un giornale una notizia che alimenta in lui ricordi confusi. Muove da una specifica occasione di cronaca, che poi trascende, spingendosi verso un Cubismo dotato di coscienza morale, denso di simboli. Per alludere agli incendi e alle esplosioni, mescola piani e figure, in modo da generare ansia, panico. Depura l’attualità da ogni abbandono letterario, per coglierne lo spessore metafisico. Ci conduce così in un limbo sottolineato dal ricorso a un sapiente bianco e nero.
Secondo capitolo: l’esilio. Terminata l’Esposizione di Parigi, il dipinto viene trasferito a New York nel 1939. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, su richiesta di Picasso, viene custodito nel Moma. Lì rimarrà a lungo (fa eccezione la «trasferta» milanese del 1953 a Palazzo Reale, nella Sala delle Cariatidi bombardata), come un esule. Dopo varie trattative, Guernica sarà «riconsegnato» al governo spagnolo. A otto anni dalla morte di Picasso e a sei da quella di Francisco Franco, nascosto nella stiva di un volo di linea, tornerà in Spagna il 10 settembre 1981, accolto dalla folla: sarà collocato al Casón del Buen Retiro di Madrid; poi al Prado; infine, dal 1982, al Reina Sofía.
Terzo capitolo: la personificazione. Ben presto, Guernica viene trattato come una persona, portatrice di problematiche uniche, con un carattere, una singolarità, un’anima, propri diritti, proprie idee, propri enigmi. Non un «semplice» quadro. Ma un’icona. Un simbolo di resistenza e di opposizione al nazionalsocialismo e al franchismo. Un vessillo nel quale si identificano tanti antifascisti d’Europa che, spesso, nelle loro case, espongono riproduzioni fotografiche della tela.
Quarto capitolo: la vita postuma. Subito in tanti intuiscono la potenza comunicativa di Guernica. È quel che dimostrano i frequenti processi di appropriazione indebita ai quali è stata sottoposta. Da coloro che contestano gli attacchi Usa in Vietnam e in Iraq ai movimenti studenteschi del 1977, dalle voci di Ultima Generazione agli autonomisti catalani e baschi, dai gruppi che scendono in piazza contro la Nato a quelli che reclamano l’indipendenza della Palestina, dai movimenti che denunciano il dramma dei migranti ai fumettisti che evocano la recente alluvione di Valencia.
Siamo dinanzi a ripetizioni differenti, che rivelano un lato inedito di Guernica: per servirci di una categoria critica cara a John Shearman, un’opera d’arte «transitiva», che sviluppa pienamente il suo significato soprattutto attraverso un’azione sensoriale, psicologica e culturale sugli spettatori. Un’iconografia politica, che è stata rilanciata in eterogenei esercizi di profanazione. Si tratta di riscritture più o meno fedeli che, su registri non «istituzionali», ripropongono, riconfigurano, riattivano e risemantizzano la drammaturgia picassiana. Ne accresce il mito, ne dissemina il messaggio civile. Nel momento in cui esce dalle pagine di un libro di storia dell’arte, Guernica resta sé stessa e, insieme, diventa altro da sé. Immessa in processi di ri-locazione, la sua identità è riconfermata e anche deviata. Quel che è originale e quel che ne è «derivato» sono connessi. Fedeltà e tradimento si mescolano, per inaugurare sorprendenti avventure visive e conoscitive.
Talvolta, il quadro di Picasso viene utilizzato come quinta significativa per performance «artivistiche». Altre volte, se ne estraggono figure e dettagli. Il toro, che incarna la barbarie dal volto umano. Il guerriero, che è cifra della violenza politica. E le bocche urlanti che ritroviamo in diverse parti della tela: un motivo che dice la disperazione di un uomo privo di protezione divina, solo di fronte al male di vivere; testimonia l’inabissarsi di ogni senso dell’esistere; e annuncia l’attimo in cui, all’improvviso, l’incerta quiete si incrina e i fantasmi del terrore reclamano diritto all’espressione.
Scorrono le sequenze di una sorta di film inintenzionale, fatto di riaffioramenti inattesi, che colgono la valenza metastorica dell’opera. Come un fanale dotato di un’oscura chiarezza, capace di illuminare il volto più perturbante del nostro tempo. Un manifesto antifranchista, in cui si denunciano, in maniera criptica, tutte le dittature, tutti i regimi. Un atto d’accusa contro tutti gli assassini. Un ritratto di tutte le guerre, pensate come esperienza estrema che pronunciano la vita nelle sue contraddizioni. Un apologo sulla morte e sulla sofferenza, che ha la medesima forza delle tragedie greche e dei romanzi di Dostoevskij. Un affresco in cui si «scolpisce» l’angoscia. Infine, un monumento alla distruzione, che ci pone in contatto diretto con le nostre paure. E mette in scena un’apocalisse insediata nel nostro presente. Il destino tragico dell’Occidente. Dunque, non una sola Guernica, ma tante Guerniche.