Corriere della Sera, 22 dicembre 2024
Le figure del presepe napoletano
Il presepe napoletano è un sogno… Non sembri, questa mia, un’iperbole o l’esagerazione di un appassionato; il presepe napoletano è davvero generato da un sogno e qui vi racconto la sua storia.Vi siete mai chiesti perché Gesù bambino nasce a Napoli? Perché ci sono dintorno pizzaioli, lavandaie, zampognari? Che c’entra la spoglia e desertica Betlemme, poi, con i cortei, i mercati, i pastori e le indovine? C’entra eccome, perché il presepe napoletano è un diorama che non mette in scena la realtà, ma il sogno del pastore Benino.
Benino, in alcune versioni chiamato impropriamente Benito (nome che gli viene dato durante il periodo fascista), è il pastore che si addormenta la notte di Natale perché completamente ubriaco, anche se non in tutte le versioni è il vino ad agevolare il sonno. Esiste infatti un’iconografia che mostra Benino con accanto un fiasco di vino e un’altra con accanto un agnello. Leggenda vuole che Benino, satollo di cibo e vino, e avvinto da Morfeo (del resto Gesù nasceva in quel momento, quindi il sonno non poteva che essere indotto da un dio pagano), non si rechi alla messa di mezzanotte e inizi invece a sognare… Ed è il sogno a propiziare la creazione del presepe. Ma Benino è un sempliciotto e non è in grado di ricreare nella sua mente le ambientazioni tipiche della Giudea; Benino è un abitante di Napoli e non può far altro, quindi, che trasporre tutto ciò che è avvenuto a Betlemme nelle strade e nei luoghi che conosce.
Ecco spiegato perché il presepe è ambientato a Napoli. Ma che cosa sogna Benino? Per l’esattezza, sogna la nascita di Gesù bambino e ambienta, il lieto evento, a Napoli. Benino è colui il quale permette l’anarchia del presepe, e con anarchia non si intende caos o disordine (il termine «anarchia» viene quasi sempre utilizzato con un significato che non gli è proprio), ma un ordine non gerarchizzato dal potere. E quindi, innanzitutto, accade che nel presepe napoletano, secondo tradizione, la natività non debba essere al centro della scena, come invece accade nei presepi nordici o di derivazione francescana, dove al centro si trovano proprio la grotta e la sacra famiglia.
La natività, nel presepe sognato da Benino, è nascosta, te la devi proprio andare a cercare. Il messaggio che arriva a colei e a colui che osserva è questo: nel caos, nel rumore del quotidiano, trova il miracolo, trova dove sta nascendo il Dio bambino. Non solo, nel presepe napoletano, la nascita non avviene in una grotta, ma tra le rovine di un tempio antico (detto «capriccio»). E questa collocazione ha un fortissimo valore simbolico perché rappresenta la vittoria del Dio povero sul paganesimo fastoso e ricco, che però qui è ormai in rovina, pronto a lasciare spazio al nuovo culto e a trovare una sintesi con esso.
Il sogno di Benino è il racconto del bambino re, che nasce in una mangiatoia pur essendo figlio di Dio. L’anarchia risiede proprio in questo: non c’è gerarchia, si ribalta tutto e non ci sono procedure: per andare a salutare il re bambino non si deve essere annunciati, non si deve chiedere o ottenere alcun permesso. Dal bambino re può andare chiunque, vestito con i propri abiti, omaggiandolo con ciò di cui si dispone e, per chi non ha nulla da offrire, è sufficiente il dono della devozione. Ma nel presepe napoletano è possibile scorgere anche un altro elemento di incredibile modernità e realismo: l’indifferenza alla nascita del Cristo. Non sembri blasfemia o mancanza di rispetto: è la vita che scorre inesorabile. Non tutti sono, nel sogno di Benino, informati della nascita del figlio di Dio. Le massaie continuano le loro faccende, le pescivendole continuano a cantilenare la propria merce per attirare i clienti al banco, i pizzaioli continuano a infornare, nelle taverne si continua a mangiare e a giocare a carte. Solo una parte della città presepiale è informata di quello che sta accadendo e si avvia in corteo all’omaggio.
Il presepe napoletano, per tradizione, si sviluppa su più piani prospettici ed esiste una gerarchia che stabilisce il posizionamento delle scene, ma non è una gerarchia d’importanza; è legata piuttosto al tempo in cui gli eventi si sono svolti. Per tradizione, il presepe napoletano, questo lo racconta uno dei suoi massimi studiosi, il maestro Roberto De Simone, si sviluppava dall’alto verso il basso, e il suo scopo era raccontare la storia di Cristo seguendo un ordine temporale. Ancora oggi, nei presepi più grandi, ci sono diverse scene rappresentate a diverse altezze, ma la narrazione degli eventi che segue un ordine temporale non viene quasi più rispettata. Un tempo, nella parte alta del presepe c’era una scena, poi emendata, che raccontava la storia della Strage degli innocenti con statuette di bambini mutilati e centurioni che inseguivano le madri che provavano a mettere in salvo gli infanti. Poco più in basso, era possibile vedere la Madonna incinta, sul mulo, scortata da Giuseppe appiedato. E poi, soltanto alla fine, nella parte più bassa del presepe, c’era la natività.
Alcune figure fondamentali del presepe napoletano sono archetipiche e non possono mancare in nessun presepe. Il pescatore deve esserci necessariamente, perché richiama il più noto tra i miracoli di Gesù che, moltiplicando pani e pesci, ha sfamato chi non aveva da mangiare. L’acqua non può mancare e quindi nei presepi più dettagliati troverete ruscelli, fontane, stagni; fondamentali perché rappresentano il passaggio tra la vita e la morte, tra ciò che sta in superficie e quel che si muove nel sottosuolo e che infine sgorga per dissetare uomini animali e piante. Del resto è nell’acqua che vivono i pesci, e il pesce è stato proprio – non sono in molti a ricordarlo – il primo vero simbolo cristiano, il simbolo originario che ha preceduto la croce.
Un pastore che non dovrebbe mancare in nessun presepe è Cicci Bacco, figura fondamentale che rappresenta l’oste, il vinaio, posizionato sopra la botte, con le gote rosse. Cicci Bacco è ormai un pastore rarissimo da trovare nei presepi pur avendo un ruolo sacrale perché rappresenta i piaceri della vita, la celebrazione della vita intesa come godimento. Anche la lavandaia ha un ruolo centrale nel presepe napoletano perché rappresenta la ricerca della purezza; quasi sempre è vicina a un ruscello, posizionata spesso su un balcone intenta a lavare o a stendere la biancheria, spesso lenzuola immacolate, simbolo del sudario di Cristo. Una menzione a parte merita il munaciello, cartina al tornasole, prova inconfutabile che il presepe napoletano nasce dal sogno di Benino. Il munaciello rappresenta il mistero, la spiritualità, ma anche un paradosso: ma se il cristianesimo sta nascendo in quel preciso momento, come è possibile che nel presepe vi sia un monaco? Il munaciello nel presepe napoletano è l’anacronismo presepiale del cristianesimo prima di Cristo.
Accanto al munaciello c’è la zingara, che rappresenta la profezia; ha spesso il seno scoperto, nuda come le verità che vaticina. Altra figura desueta – mi capita di cercarla nei presepi ma non la trovo quasi più – è il cacciatore, che deve sempre avere il colpo in canna e un cane accanto, e anche qui è d’obbligo una precisazione: non c’era la polvere da sparo ai tempi di Gesù, e allora come spiegare questo altro anacronismo? Semplicemente con il valore simbolico che il cacciatore porta su di sé, personificando la lotta tra il bene e il male.
Alcuni pastori hanno anche un nome proprio, come ad esempio la donna con il bambino in fasce, detta ’Onna Stefania (donna Stefania), chiamata così perché rappresenta l’attesa, perché ogni donna che aspetti un bambino o che abbia appena partorito, rinnova il miracolo della vita, non importa dove sia nato e in quali condizioni. Ma perché Stefania? Perché il giorno di Santo Stefano, che cade il 26 dicembre, deve aspettare la venuta del re bambino per essere festeggiato, e dopo quella data ogni bambino, in qualunque luogo o condizione nasca, rinnova il miracolo di Cristo.
E poi c’è il Pulcinella da presepe, anche lui, ahimè, praticamente scomparso. Pulcinella, lo dice il nome stesso che deriva da «pulcino», appartiene alla famiglia dei volatili da cortile ed è imparentato con la gallina (la maschera nera, infatti, ha un naso assai pronunciato, quasi un becco) e difatti Pulcinella/gallina, beccando il terreno, fa da tramite tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.
A Napoli, nelle case popolari e borghesi, il presepe lo si trova solo durante le festività natalizie; nelle case aristocratiche e altoborghesi, invece, è perennemente esposto. Con ogni probabilità si tratta di una questione di spazio disponibile in casa, talvolta anche della preziosità del manufatto, che si tramanda da generazioni e che è un punto d’orgoglio mostrare durante tutto l’anno. Molto spesso, però, il presepe che viene mostrato durante tutto l’anno rappresenta la sola natività, esposta nella cosiddetta campana, una teca di vetro a cupola posta su un piedistallo ligneo o marmoreo.
A casa dei miei nonni paterni il presepe si faceva solo a Natale ed era enorme e bellissimo, da questa tradizione familiare nasce la mia sregolata passione verso l’arte presepiale. Quando vivevo a Napoli amavo passeggiare per San Gregorio Armeno durante tutto l’anno e acquistare, anche in piena estate, gessetti (pastori di piccole dimensioni, con i tratti somatici appena accennati e più economici rispetto ai pastori meglio rifiniti) che, nella mia immaginazione, avrebbero dovuto animare, un giorno, un grande presepe tutto mio.
Essere cresciuto a Napoli, significa avere incontrato sin da bambino, in ogni casa, questi diorami. Ogni famiglia in Campania (non si può certo ridurre tutto alla sola città di Napoli) ha una sua interpretazione del presepe, e ogni interpretazione rivela segretamente una traccia del carattere, una scelta culturale, custodisce un elettrocardiogramma dello stato di salute di quella famiglia. Sto esagerando? Forse un po’, eppure a seconda delle luci, della scelta dei pastori e del posizionamento delle prime e dei secondi è possibile rintracciare percorsi e talvolta anche immaginare la predisposizione d’animo con cui il presepe è stato costruito.
Il presepe dei miei nonni paterni era costruito su quattro piani e riempiva un’enorme stanza. I miei nonni avevano una vecchia osteria, non un ristorante ma un’osteria di quelle vere, di quelle con la targhetta di metallo con su scritto «Non bestemmiare e non sputare a terra». Un’osteria autentica che infatti non è sopravvissuta, come tutto ciò che è vero, all’industrializzazione del cibo. E, nelle osterie vere del Napoletano, del Napoletano contadino, il presepe era fondamentale. Ebbene, da bambino ero convinto di poter intuire l’umore con cui, quel dato Natale, era stato assemblato il presepe, a seconda della quantità di pastori in adorazione disposti davanti alla grotta. Se i pastori erano pochi e sparsi, se erano ancora in cammino e venivano da lontano, alla spicciolata, mi convincevo che i miei nonni fossero tristi, che la sorella di mia nonna non stesse vivendo un momento allegro. Se invece i pastori erano tanti e le grotte luminose invece che buie, se c’erano almeno tre pastori pizzaioli e due pastori vinai, mi piaceva pensare che fosse un presepe fatto allegramente.
Il presepe napoletano è un sogno che contrasta con il mio definitivo accesso alla vita adulta che si è rivelata mutilazione di ogni fantasia, eccezion fatta per il presepe. La miniatura è per me accesso fisico a un mondo sognante, il diorama della nascita mi permette di contenere, immaginandola tutta, la vita che non incontro.
Benino invita a immaginare che da qualche parte, nel disordine e nel lerciume, c’è un miracolo che si compie. Basta cercarlo, basta sognarlo.