Corriere della Sera, 22 dicembre 2024
I verbali del processo alla figlia segreta di Mussolini
Lo venne a sapere così, dalla madre Angela, una sera a cena con lei nel 1942: «E se tuo padre fosse Benito?». La giovane, Elena Curti, all’epoca ventenne, sgranò gli occhi. Lei «era perfettamente persuasa» che il suo vero genitore fosse Bruno, ex squadrista milanese che «non vedevo da anni». Certo, il Duce era una presenza costante in quella famiglia: telefonava, inviava lettere e «mamma me ne parlava sempre». Ma il dittatore non l’aveva mai riconosciuta come propria figlia, sebbene Mussolini l’avesse avuta accanto a sé nell’ultimo, drammatico, viaggio lungo il lago di Como nell’aprile 1945.
Nuovi dettagli su questo rapporto tra il padre e la sua figlia segreta emergono all’Archivio di Stato di Como dove sono stipati centinaia di fascicoli, in via di progressivo riordino, che contengono gli atti dei processi per collaborazionismo ai fascisti di Salò.
Ci sono anche le carte riguardante Elena Curti, morta due anni fa, quasi centenaria. Sì, una fascista convinta, ma pure amica di giovani partigiani che, catturati dalle Brigate nere, lei tira fuori di prigione. Poi saranno proprio loro a testimoniare a suo favore, firmando delle dichiarazioni giurate.
Se la posizione della ragazza, in carcere dal 28 aprile 1945 dopo essere stata catturata dai garibaldini, viene archiviata è soprattutto grazie all’ingombrante parentela, sino ad allora nient’altro che gossip. Nel giudizio datato 10 settembre 1945 il procuratore di Como Antonio Tribuzio – un bravo avvocato nominato dal Cln lariano – scrive che sì, Elena si trovava nella stessa autoblindo con Mussolini, in quella disperata fuga verso chissà dove e terminata a Dongo, ma «era più per il desiderio di rivedere il padre naturale» che non per «raccomandargli un ministro delle Corporazioni caduto in disgrazia». La circostanza per cui era finita a giudizio.
Non solo. «L’essersi trovata nell’autocolonna» dei gerarchi che scappavano «nelle circostanze molto note» «non costituisce delitto» e nemmeno «nell’atteggiamento della giovane si riscontrano altri fatti che costituiscono reato di collaborazionismo con il tedesco invasore».
Insomma, anche il magistrato ritiene veritiero il fatto che Mussolini fosse davvero il padre di quella ragazza. Tanto che nel dispositivo che la scagiona dalle accuse ripete che «mancano le prove che nei vari colloqui tra l’ex duce e la figlia naturale ci siano state confidenze lesive degli interessi degli italiani».
Il fascicolo è sorprendente. Intanto per le testimonianze a favore di Elena, allora studentessa di Scienze politiche. Sono tre, tra cui quella di un partigiano suo amico, Franco Valerio, arrestato perché in casa aveva «materiale di propaganda». Ma in carcere riceve la visita di Elena che lo «istruisce nel come comportarmi per l’opera di salvataggio» per cui interviene Alessandro Pavolini, capo delle Brigate nere. Le circa 20 pagine di interrogatorio sono un «flusso di coscienza» giudiziario. La figlia del Duce racconta di aver salvato «altri cospiratori», fornendo «informazioni propizie al Cln». Ma quando lo stesso Valerio le chiede altre notizie lei lo stoppa: «per la mia coscienza sarebbe stato un tradimento». C’è pure da «salvare un ebreo» e Elena «escogita lo stratagemma» di dire al padre che «è il mio fidanzato». Lui si «meraviglia» «e prega mia madre di persuadermi a rinunciare» dato «che di giovanotti ariani ce n’erano tanti». Quando incontra il Duce la prima volta a Salò, trovandolo «d’aspetto migliore rispetto a Roma», gli dice: «magari ti sei dato alla cocaina». Al che papà sgrana gli occhi: «Non conosco questa droga» e semmai sono «i tedeschi a curarmi bene». Elena mente quando dice di essersi trovata «per caso» nella blindo con il padre. Ma è vero il resto. Ascolta Clara Petacci gridare: «Duce salvatevi!». Lui raggiunge il camion dei tedeschi: «Mi fido più di loro che degli italiani». Quando i garibaldini la catturano la rapano a zero. Quattro mesi di carcere, poi caso archiviato.