il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2024
I curdi resitono nella Siria ormai turca
Un cartello in curdo e in arabo segnala “strada principale”, perché qui orientarsi è una questione di vita o di morte. Lungo i lati si aprono altre vie, passaggi scavati a forza, bagni ridotti all’osso, cunicoli, anfratti soffocanti e andando più avanti, le stanze dei combattenti. Ancora più in giù c’è il locale più grande, quello con le prese della luce e lo spazio dedicato alla televisione, dove vivevano i leader: un ambiente rivestito di carta argentata, un fragile scudo contro il sudore della terra. Qui non siamo a Gaza e questi tunnel non sono quelli di Hamas. Siamo nel nord Siria, fra Aleppo e Azaz, a Tal Rifat per la precisione, nel mondo dei curdi, dove la resistenza si costruisce metro dopo metro, sopra e sottoterra.
I tunnel del Pkk e dello Ypg e Ypj in questa zona della Siria sono stati scoperti a inizio dicembre, quando un combattente catturato dal Free Syrian Army (Fsa) – l’Esercito libero siriano, ancora radicato in questa parte del paese – avrebbe parlato per salvarsi la vita. “Sapevamo dell’esistenza, ora abbiamo la conferma: nelle ultime settimane ne abbiamo trovati più di quaranta in questa zona”, racconta un uomo mascherato del Fsa. “Alcuni hanno anche la connessione Internet”. Qui la Rete non c’è, ma lungo le pareti di cemento, un filo giallo e uno nero corrono come vene sotterranee, portando luce e linea telefonica lungo il labirinto. È un sistema rudimentale, ma efficace, che trasforma questo dedalo nel ventre della resistenza. L’accesso è una botola di ferro con serratura per chiudersi dall’interno, nascosta in un edificio fatiscente. Le uscite, invece, sono numerose e distanti, distribuite a diverse centinaia di metri, progettate per fuggire o prendere il nemico alle spalle. Non sono semplici passaggi sotterranei, ma un’opera di ingegneria e di astuzia, scavati nella terra come se il suolo potesse proteggere dalla guerra che devasta la superficie. Gli scavi sono cominciati nel 2016 e in otto anni di militanza i curdi hanno combattuto per mantenere le loro posizioni e custodire il loro segreto. Il tunnel in cui ci troviamo, visitato in esclusiva per il Fatto, ha richiesto quattro anni per essere completato e pochi minuti per essere abbandonato, perché una volta scoperto nessuno vuole fare la fine dei topi in gabbia.
Cacciata dalla dittatura sanguinaria degli Assad, la Siria è ancora lontana dal potersi considerare un territorio libero dagli interessi stranieri. La ricostruzione turca nel nord della Siria non è solo un processo di rinascita, ma un atto di annessione mascherato da operazione di recupero. Nel gennaio del 2018 prende il via l’operazione Olive Branch, quando il Free Syrian Army, in difficoltà contro i curdi, chiede aiuto alla Turchia, che coglie al volo l’opportunità di lanciare un’offensiva militare per conquistare il distretto di Afrin, nel nord della provincia di Aleppo.
L’obiettivo dichiarato è creare una zona cuscinetto per proteggere i confini dalle infiltrazioni nemiche che nella pratica significa inglobare il territorio siriano. Erdogan non si lascia sfuggire l’occasione, bombardando i curdi, con la promessa non velata, di diventare il nuovo padrone di quelle terre una volta “liberate”. E così comincia il rinnovamento, non solo materiale di quello che la guerra ha raso al suolo, ma anche culturale. Mentre i palazzi e le infrastrutture vengono riedificate, ciò che emerge è una trasformazione profonda del tessuto sociale. Si insegna il turco nelle scuole e la lira turca diventa la moneta corrente, relegando quella siriana – che ad oggi non ha un valore chiaro di cambio – a un lontano ricordo. La gestione della cosa pubblica, dai servizi alle scuole, è nelle mani turche, e le decisioni urbanistiche e politiche vengono dettate da Ankara. Così, mentre la ricostruzione avanza, il nord della Siria è diventato a tutti gli effetti un governatorato turco, con una popolazione che si trova a vivere sotto il controllo di un’autorità straniera, ma con il volto della rinascita.
Cosa ne pensano i cittadini di questo cambiamento? Vedere un paese che rinasce, con strade nuove e denaro che scorre, porta speranza. Ma il prezzo da pagare per alcuni è troppo alto: la rinascita di Erdogan non ha sapore di libertà. Ad Azaz, l’ultima città siriana prima del confine, il vento della ricostruzione soffia da tempo. Qui, dove le insegne luminose con la scritta turca “restoran” luccicano come promesse e i benzinai funzionano, diversamente dal resto del paese, ogni angolo racconta un compromesso. Nel centro dell’agglomerato urbano, due mani giganti si stringono in segno di fratellanza con al polso di ciascuna, due bandiere che parlano di radici distinte: quella della mezzaluna rossa cancellata da inchiostro nero, e quella dell’opposizione siriana con le tre stelle, che vuole annunciare la speranza dopo il regime di Assad. “È tempo di neutralizzare le organizzazioni terroristiche esistenti in Siria”, ha annunciato il presidente Erdogan in un vertice al Cairo. Un chiaro riferimento alla causa curda, accompagnato dalla promessa di nuove ritorsioni nel nord della Siria, giustificate con la consueta accusa di terrorismo rivolta ai nemici di Ankara e sostenute da una retorica ormai logora sulla difesa dei confini nazionali.