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 2024  dicembre 21 Sabato calendario

Toni Servillo conteso tra cinema e teatro

Con il fondato sospetto che vocazione sia una parola vuota: «Così indistinta da confinare con la superficialità», Toni Servillo detesta i bilanci, non ama le definizioni: «Più passa il tempo e più ne ho paura» e non diversamente da Molière diffida «del generico desiderio di esprimere sé stessi». Con il dubbio come bussola e l’ossessione per il mestiere: «la prima qualità di un attore» coltivata anche osservando gli altri: «Elias Canetti, già anziano, diceva che non c’era niente che lo appassionasse di più di prendere il tram a Vienna per guardare le facce delle persone» Servillo è arrivato sul ciglio dei 66 anni.Uno spettacolo teatrale di Giuseppe Montesano, Tre modi per non morire, in scena all’Argentina dall’8 al 19 gennaio, un film di Roberto Andò, L’abbaglio, in uscita a metà dello stesso mese e la settima collaborazione con Paolo Sorrentino, intitolata La grazia, da affrontare in primavera. Tasselli di un esteso mosaico che al di là dei premi e dei riconoscimenti è partita a scacchi senza pause, opera aperta, ricerca, scoperta e gestione di un dono: «Per molto tempo Jouvet ha insegnato al Conservatoire di Parigi. Una sera, prima del saggio finale, si avvicina a un giovane attore e gli domanda: “Hai paura?”. Il ragazzo dice di no e Jouvet, pronto: “Arriverà con il talento"».C’era tempo per coltivare il talento nel posto in cui è nato?«Sono nato ad Afragola, un avamposto essenzialmente agricolo, nel 1959. Sul terreno, un dopoguerra severo, aveva lasciato miseria e racconti terribili. Le persone si erano ribellate. Avevano sofferto. Avevano lottato. Una zia, al tempo in cui le truppe coloniali francesi reclutate ad Algeri da De Gaulle risalivano l’Italia terrorizzando le giovani donne, a un soldato aveva staccato l’orecchio a morsi mettendolo in fuga».Che donne erano quelle della sua famiglia?«Se penso alla mia infanzia ad Afragola penso a un’atmosfera profondamente matriarcale. Oggi se ne parla tanto, ma a quell’epoca il matriarcato era realtà. Le donne decidevano tutto. Erano più forti, più intraprendenti, più coraggiose. Mia madre, per dire, era cresciuta da sola con quattro sorelle».Gli uomini?«Se le donne avevano una relazione con la vita calda e concreta, gli uomini, sconvolti dalla guerra, spaventati dalla realtà e alla ricerca di un riparo erano in fuga».Per andare dove?«A distrarsi con le luci dello spettacolo. La generazione di mio padre, sul palcoscenico, ha visto darsi il cambio grandissimi attori, non solo e non soltanto Eduardo. Ha visto il grande cinema americano. Ha visto un altro mondo. Il mondo della rappresentazione, delle favole, del sogno».Che spazio c’era nella sua famiglia per l’affetto?«Non mi è mai mancato. Mia madre dimostrava l’amore toccandoti, abbracciandoti e stringendoti. La capisco perché quando voglio bene a qualcuno faccio la stessa cosa».Suo padre la abbracciava?«No, ma sapeva volermi bene in silenzio. Non era un’epoca in cui si pensava nevroticamente ai figli, non era un’epoca di grandi attenzioni e non era un’epoca in cui ci si preoccupasse troppo della nostra noia».Cosa ricorda di quella noia?«Che è un’occasione persino poetica di capire come stare al mondo. Io e la mia noia ci siamo trovati benissimo. Il rumore del pallone arancione che tiravo contro una porta giocando da solo nei lunghi pomeriggi estivi non me lo sono più dimenticato».Cos’altro non ha dimenticato?«L’amore, il sesso, la miseria, l’ambizione. I sentimenti forti dei primi anni e le esperienze affrontate in una libertà selvaggia, con le strade senza cemento, i contadini che tornavano dai campi trascinando gli animali, le corse a perdifiato nei cortili delle case e le persone che non le conoscevi per nome, ma per soprannome, proprio come accade in certi manifesti mortuari della provincia che altrimenti il morto non lo identificherebbe nessuno».Semplicità è sinonimo di felicità?«Non lo so, ma so che se potessi veder realizzato un desiderio vorrei tornare a quei giorni, ai gatti che danzavano attorno alle fioriere, agli orti che spuntavano rigogliosi nei cortili, alla serenità che abbraccia chi non ha impegni o scadenze».La famiglia Servillo aveva una tradizione teatrale?«Nessuna eredità e nessuna ascendenza. I miei erano due piccolo borghesi con un orizzonte, anche culturale, estremamente limitato. Libri in casa non ce n’erano. Quando papà morì cercammo le sue tracce tra le carte della scrivania. Trovammo una grande busta chiusa e dentro, disposte ordinatamente, le bollette da pagare. Una cosa, che ancora oggi, mi provoca una tenerezza che non so esprimere. Papà era cresciuto nella convinzione che la cosa principale della sua vita fosse il lavoro. Il lavoro e il suo pacchetto di sigarette. Ne accendeva una, incassava lo stipendio e lo passava interamente a mia madre: “gestiscilo tu che sai come si fa"».Fuma anche lei?«Sono stato un grande fumatore. Sigarette e sigaro. Ho praticamente smesso. L’ho promesso a mio figlio».Lei e suo fratello Peppe siete diventati artisti. I vostri genitori vi capirono?«Non ci hanno mai ostacolato, ma certo non capivano. Li sentivamo parlare dietro la porta del pomeriggio, per dirla con Paolo Conte, perché la nostra stanza confinava con la loro. “Uno vuole fare l’attore e l’altro il cantante” sussurrava mio padre a mia madre mentre si tagliava la barba. “Ma che sta succedendo?"».Il suo nome appare per la prima volta su un quotidiano, “Paese Sera”, nel 1978. Quasi mezzo secolo fa.«Non so se la sua sia una velata insinuazione anagrafica, ma di certo è passato tanto tempo. Di quel periodo ricordo la gioia e la curiosità di sentirsi parte di un gruppo e l’emozione, l’epifania direi, di capire che di fronte a te c’è un maestro».Chi è il maestro per lei?«Chi è capace, anche non intenzionalmente, di indicarti una strada. Di farti specchiare nella tua efficacia e nelle tue debolezze. Potrei fare tanti nomi: Leo De Berardinis, Cesare Garboli, Luca Ronconi: uomini adulti, più adulti di noi che a me e a quelli come me hanno concesso il lusso della formazione».Come definirebbe la recitazione?«Non è semplice. Mi verrebbe facile dire, ma non è che ci creda poi veramente fino in fondo, che alcune volte, all’interno di una recita, attore e spettatore possano avere l’illusione di esistere. È una sensazione magica che ho provato in entrambi le vesti anche per un solo istante, per un solo momento. D’altra parte, Ronconi, che era solito mettere in scena spettacoli fluviali, diceva che si poteva uscire dalla sala, prendere una boccata d’aria e tornare senza aver perso nulla dell’esperienza teatrale. In fondo quando andiamo in un museo non capita la stessa cosa? Guardiamo un’opera e ne cogliamo un particolare che ci torna alla mente quando meno ce lo aspettiamo. Si tratta di una reazione, biologica e fisica, di un grido che risponde a un altro grido, di una scossa vitale di grande fascino che in teatro come di fronte a qualsiasi arte può verificarsi, manifestarti, rapirti».Vuole azzardare una definizione di teatro?«Per me il teatro rimane un mistero».È un mistero anche essere attori?«Non c’è attore che non attraversi un proprio personale purgatorio: è costretto a lasciare in un angolo i panni della vita e la sua quotidianità per entrare in un’altra zona della vita che è una sintesi della vita stessa».È difficile darsi dei confini, dei limiti?«Ne Il mare, il mare, Iris Murdoch sostiene che le cose più importanti che un uomo ha da dire sono nella sua zona più alta o più profonda. In mezzo restano le chiacchiere. Queste chiacchiere somigliano al teatro o sono il teatro stesso? Murdoch dice che il teatro è una questione di bugie moltiplicate all’infinito. Bugie che in mano a un drammaturgo di dubbia bravura sono artifici di cui non ci importa nulla, ma in mano a un poeta si trasformano in sublime poesia».Chi fa teatro fa poesia?«Chi fa teatro non ha i codici artistici del poeta o del pittore, ma può trovarsi nell’apparente illusione di avvicinarsi a una verità. La condizione del teatro è trovarsi al limite di una sospensione tra la vita reale e la vita rappresentata: una condizione esistenziale molto faticosa, drammatica, difficile da sopportare».Tra un mese compirà 66 anni. Cosa le suggerisce l’esperienza?«In quest’epoca la sospensione dell’incredulità di cui le parlavo prima è molto difficile da praticare. Il limite tra ciò che è falso e ciò che è vero, tra ciò che è bello e ciò che è brutto, si confonde in maniera angosciante. È una delle ragioni per cui, da due stagioni a questa parte, quando porto in scena Tre modi di non morire non fingo di essere qualcun altro, ma cerco di contagiare il pubblico e sono semplicemente Toni».Quasi nel solco di Carmelo Bene.«Un artista fondamentale per la mia generazione che ha portato a livelli altissimi la riflessione sul teatro e sullo spettacolo con un atteggiamento, non di rado distruttivo, di tale sublimazione intellettuale da farmi venire il dubbio che con l’esperienza del teatro – e quando dico esperienza mi riferisco soprattutto a quella del pubblico – la sua lezione abbia relativamente a che fare. Il teatro secondo me è una faccenda più povera e umile. Quindi, pur avvertendo nei confronti di Bene una riconoscenza infinita, vedo in lui una meteora che ha attraversato il teatro».De Filippo è stato diverso?«Ho assistito più di una volta al teatro di Eduardo e di Carmelo. Avere a che fare con due vertici così distanti e allo stesso tempo così pieni di intelligenza, per la mia generazione è stata una fortuna enorme. Ma erano diversi. Eduardo ha animato un universo drammaturgico che ha saputo farsi universale. Bene è stato un fenomeno profondamente italiano strettamente legato a una élite parigina».Li ha visti spesso mi diceva.«Una volta andai a vedere Bene in Mi presero gli occhi. Alla fine della seconda il tripudio di applausi lo obbligò a rivolgersi ad alta voce al pubblico e urlare: “Vi invidio!”. Come a dire “Beati voi che avete potuto assistere a una serata del genere”. Qualche anno dopo un amico attore mi raccontò un episodio, della sua gioventù. Era a Genova, partecipava a un film in cui recitava una parte molto piccola e in città, in tournée, si trovava anche Eduardo De Filippo. Alla fine della recita Eduardo esce dal teatro. Gli vanno incontro dei soldati napoletani di leva in Liguria. “Eduardo, siamo militari, non abbiamo soldi, ci date qualche biglietto per venirvi a vedere?” Eduardo mette mano alla tasca, gli dà del denaro e sussurra: “Andatevi a fare una chiavata stupenda"».È andata veramente così secondo lei?«Non so se Eduardo abbia detto esattamente quelle parole, ma mi piace pensarlo perché amo immaginare la relatività che un uomo di teatro attribuisce alla sua vita e alla sua parabola artistica. La vita pulsa e fugge. Scappa e tu cerchi di imbrigliarla. Ma per quanto tu ti possa sforzare, la vita ti fa comunque maramao. Questo un uomo di teatro lo sa e questa consapevolezza è una cosa che mi affascina enormemente».Il “New York Times” ha inserito il suo nome tra i migliori 25 attori dell’ultimo ventennio. Come si definisce un grande attore?«I grandi attori si distinguono dai piccoli attori nella misura in cui i grandi attori hanno una consapevolezza della funzione del loro mestiere e sono capaci di trasformarla in stile».Fotografi lo stile.«Secondo me è una commistione tra consapevolezza della propria funzione legata a un inesausto approfondimento di natura critica. Il dubbio è riflessione, progresso, indagine sull’autenticità. Se non ti poni delle domande il teatro è sterile».E il cinema?«Il cinema è tutta un’altra questione. Il teatro è una faccenda materiale e artigianale: un’avventura umana con gli interrogativi, gioie e insuccessi che si presentano quotidianamente, il cinema no. È una parentesi, magari felice, ma sempre una parentesi è».Ne “L’uomo in più” di Paolo Sorrentino, prima tappa di un lungo percorso fianco a fianco, lei declamava un memorabile monologo sulla libertà.«Libertà per me è il lusso di tenermi il più lontano possibile dalla chiacchiera inutile. Pur avendo una casa a Roma vivo ancora per la maggior parte del mio tempo a Caserta: una scelta che confina con la necessità di preservare proprio una forma di libertà».Per dirla con Kavafis, si tiene lontano dal gioco balordo degli incontri e degli inviti.«Come d’altra parte faceva Luciano Bianciardi che sulla necessità di vivere in provincia per rimanere legati a una dimensione vergine ha scritto pagine superbe. Non sono poi troppo originale, come vede».Quanto è importante il ricordo per lei?«Quando penso alla memoria penso a porte che ti si chiudono in faccia, a posti dove non poter tornare più. Non so se è più appropriato dire che dimentico o rimuovo, ma non sono ossessionato dai ricordi. Forse per paura, forse per codardia, forse per mantenere l’illusione di essere vivo o forse soltanto perché sono affascinato dal presente. Mi piace il presente: come gioco e come tempo. D’altronde il presente è il tempo dell’attore. La parola più importante per un attore è momento. È il termine intorno al quale gira tutta la vita di un attore. La sua missione è il presente. Una porta sempre aperta, un luogo su cui esercitare lo stupore».