La Stampa, 21 dicembre 2024
Un Natale con la bimba salvata dalle acque
Questa è una storia di Natale, perché il Natale celebra una nascita. È anche la storia di un miracolo, di una speranza e di un’attesa. È la storia di una creatura salvata dalle acque, proprio come quel Mosè che portava nel nome il suo stesso destino di bambino sottratto all’annegamento.La storia che voglio raccontare non avviene tra il 24 e il 25, ma in una notte di dicembre senza cometa a far luce in un cielo distante e senza motovedette in mezzo al mare. Una notte simile a quella in cui una coppia in viaggio dalla Giudea arriva a Betlemme, cento chilometri in groppa a un asino, gira di casa in casa per cercare un porto sicuro, un riparo per dormire; niente, nessuno apre la porta agli stranieri. Tornatevene a casa, perché vi siete messi in viaggio con questo freddo, con questa pancia di nove mesi, di questi tempi? Maria e Giuseppe non trovano rifugio, solo una grotta usata come stalla in cui la donna incinta, stanca dal lungo vagare, metterà al mondo il suo bambino e porterà la luce sulla terra.Ma la notte di cui vi parlo è una di quelle in cui nemmeno la luna ha cuore di assistere al destino dei naufraghi in mezzo al mare color del vino, forse perché ne ha viste tante, e pure lei ai miracoli ha smesso di credere da un pezzo. Sono le 3.20 del mattino al centro del canale di Sicilia, latitudine 35.34 gradi, longitudine 12.45 gradi, una barca di ferro con più di quaranta migranti si è rovesciata, lasciando alle onde il suo carico di disperata umanità. Passano ore, forse giorni, le grida si zittiscono a una a una, torna il silenzio sul nero mare, solo una voce resta, piccola e persistente.Quella notte il miracolo si manifesta sotto le sembianze di una barca a vela, si chiama Trotamar III e appartiene alla ong tedesca Compasscollective, una di quelle che vanno a salvare vite e in cambio sono accusate di collaborare con gli scafisti trafficanti di uomini. Qualcuno a bordo, tra gli ululati del vento e il rumore delle onde, avverte pigolare quella voce, il lamento tenace di chi non si arrende a essere trascinato giù, di chi non vuol morire. Lo skipper accorda la sua prua con quella voce, che ogni tanto sparisce tra i rumori del motore e poi riaffiora, come un relitto sul punto di colare a picco. Dalla murata della barca cala un gommone, parte dell’equipaggio si mette alla ricerca e finalmente vede quello che appare come una macabra visione. Un corpo piccolino, un lungo pesce argentato, galleggia sul pelo dell’acqua aggrappato alle due camere d’aria di un giubbotto di salvataggio. Quel corpo è una bambina di undici anni, quella bambina è viva, il mondo è salvo. Unica sopravvissuta, così pare, al naufragio dell’imbarcazione su cui cercava dalla Tunisia di raggiungere le coste siciliane insieme ad altri in fuga dalle guerre e dalla povertà. Li ha colti la tempesta, come se la loro vita fino a quel momento non fosse stata per l’appunto quello: ininterrotta tempesta. Vento a 23 nodi e onde alte, e cielo e terra furono indistinti. «Tre volte il fé girar con tutte l’acque;/ a la quarta levar la poppa in suso /e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ’l mar fu sovra noi richiuso». Il naufragio di Ulisse e i suoi compagni, descritto da Dante nel XXVI dell’Inferno, non fu meno terribile. Con l’unica differenza che a salvarsi qui è stata una bambina.La piccola Jacinta non tornerà nella Sierra Leone da cui proviene, verrà affidata, questa è la speranza, a una famiglia che la tenga al sicuro e al caldo, lontana dalle guerre, dalla fame e dagli oscuri gorghi del mare. Come Mosè, che salva il suo popolo proprio perché salvato, questa bambina di undici anni sia il nostro Natale, ci salvi dall’egoismo, dalla noncuranza, dall’ottusità colpevole di chi gira la testa dall’altra parte, della crudeltà politica di chi utilizza le vite degli altri come strumento di mera propaganda per raccattare voti. Ci salvi, Jacinta, anche dal buonismo senza qualità, dall’ipocrisia del «meno male», perché non esiste, in mezzo al mare, un meno male. Esiste il male, esistono il pericolo e la morte, o la sopravvivenza, e queste due alternative dipendono da noi, non perché siamo tutti marinai ma perché a tutti è data una matita per votare e per decidere a chi affidare le vite dei più deboli.Non è vero che questa è una storia di Natale, perché in realtà l’abbiamo sotto gli occhi tutto l’anno. E dei miracoli non è giusto abusare. Forse la storia di Jacinta ci viene a dire proprio questo: che sopravvivere non dovrebbe essere una bella favola da raccontarsi sotto l’albero o davanti al presepe ma una pagina di normalità. La rinascita di questa bambina dalle acque accende una scintilla di luce dentro i nostri anni bui, perché salvare una vita significa salvare se stessi, questa è l’unica legge che dovremmo ricordare: la legge del mare e degli umani, la legge che ha portato agli uomini quel bambino nato nella capanna. —