Corriere della Sera, 21 dicembre 2024
Murakami domina la classifica di qualità 2024
Le storie di Murakami Haruki non sono fuori dalla storia. Le sue trame hanno il loro bel da fare a entrare e uscire da mondi paralleli, esplorare bolle temporali, calarsi in cunicoli e aprire botole sull’inatteso, eppure – affollate come sono di esseri umanissimi e più veri del vero – non sfuggono alla morsa della realtà. Se l’irrealtà dello scrittore giapponese è così seducente e precisa, se assolve così magistralmente al compito di farci da specchio, è perché porta addosso le stimmate dell’universo nel quale viviamo, e nel quale vive il suo autore. Murakami, che ha vinto la Classifica di Qualità 2024 de «la Lettura» con La città e le sue mura incerte (Einaudi, come tutti i suoi titoli), è un compagno di strada a pieno titolo per tutti. Anche stavolta che ci parla di unicorni.
In altre parole: il mondo di Murakami Haruki – o Haruki Murakami, all’occidentale, come si preferisce: tanto lui è sempre lui, le metamorfosi le lascia confinate ai suoi libri… – è il mondo tout court, ma sotto mentite spoglie. Il fantastico, l’altro, viene mimetizzato ma poi salta fuori.
I primi romanzi, per esempio. Ascolta la canzone del vento e Flipper 1973, usciti rispettivamente nel 1979 e l’anno successivo. Due gioielli, non i suoi capolavori. Lui stesso ha ammesso di «aver usato» nello scriverli «solo il venti o il trenta per cento delle mie possibilità»; eppure, nella vita urbana un po’ bohemienne dei protagonisti, resa da una scrittura pianamente realistica, si colgono la confusione e i primi segni di sazietà di un Giappone dove i meccanismi del successo economico postbellico si stanno già surriscaldando. Non è un caso che il passaggio a un Murakami davvero murakamiano, nell’accezione oggi condivisa, avvenga con il romanzo successivo, Nel segno della pecora (1982), dove tutto parte da un giovane uomo impelagato in una professione che più figlia del boom non si può, il pubblicitario (poi però sarà la sua vita a fare boom).
Murakami non elude neppure le ferite che il Giappone ha avuto più pudore a mostrare e più ritrosia a curare. L’espansionismo imperiale ai danni delle nazioni vicine, le brutali occupazioni coloniali e militari con i crimini conseguenti, le responsabilità nello scoppio della Seconda guerra mondiale – al netto, certo, del duplice orrore nucleare patito a Hiroshima e a Nagasaki nel ’45 – costituiscono un pezzo di storia discretamente rimosso. Nei libri di Murakami, tuttavia, questo sostrato oscuro pulsa. Si ritrova in L’uccello che girava le viti del mondo, uscito nel 1994, dove il resoconto del tenente Mamiya riporta allo Stato fantoccio del Manchukuo, creato da Tokyo in Manciuria nel 1932, e all’occupazione giapponese della Cina. Il pozzo asciutto nel quale finisce prigioniero lo stesso Mamiya, dopo avere sconfinato in Mongolia, è una chiara metafora ma già prima le parole del suo commilitone Hamano erano esplicite: «La guerra che noi stiamo facendo qui (…) non riesco a considerarla onesta». Addirittura: «Dalle parti di Nanchino abbiamo fatto cose tremende. Anche la mia unità. Abbiamo gettato decine di persone in un pozzo, e da sopra abbiamo lanciato bombe a mano. Abbiamo fatto cose che non si possono raccontare». (Il pozzo ricorre spessissimo in Murakami, persino dedicarsi a «un romanzo, soprattutto un romanzo lungo, è qualcosa che fai in solitudine. A volte ho l’impressione di stare seduto in fondo a un pozzo», annota in Il mestiere dello scrittore, 2015).
Proprio la tragedia di Nanchino (un mese e mezzo di violenze dal 13 dicembre 1937, tra le 100 mila e le 300 mila vittime) scava silenziosa ma implacabile sotto le storie di Murakami fino ad arrivare a una sorta di resa dei conti, la più intima possibile, con una novella del 2019, Abbandonare un gatto. Testo sicuramente non decisivo per definire la statura dell’autore, è tuttavia cruciale per la nettezza con cui affronta il rapporto con il padre. Il timore – il terrore – che Murakami senior con Nanchino c’entrasse, che ci fosse anche lui tra i militari stupratori e massacratori, ha fatto sì che la faccenda diventasse per il figlio «come una spina rimasta in gola». In effetti l’uomo, giovane soldato, fu «assegnato al 20° reggimento della 16ª divisione di fanteria», che poi «era stato il primo ad arrivare a Nanchino dopo la caduta della città». Alla fine dell’indagine però lo scrittore potrà definirsi semplicemente il «figlio qualunque di un uomo qualunque», un sollievo.
Sostiene Murakami che «la storia non appartiene al passato» e dunque «fluisce nella coscienza umana». Eppure anche quando a mordere non è la storia ma la cronaca, lui si fa trovare al suo posto. Underground, uscito nel 1997, è una raccolta di interviste, lavorata con devozione civile, a superstiti e familiari di vittime dell’attacco alla metropolitana di Tokyo del 20 marzo 1995, il giorno in cui membri della setta Aum Shinrikyo sparsero un micidiale agente chimico, il sarin, con un bilancio di 13 morti e centinaia di intossicati. Lo scrittore di trame acrobatiche e lussureggianti è segnato e ha «voglia di conoscere» quelle persone, farsi un’idea, «capire meglio come funzioni questo nostro sistema sociale». La scelta di parlare attraverso le parole degli altri, le parole di persone traumatizzate dall’attentato, è una prova di forza da parte di chi per cinque o sei ore al giorno inventa storie. Il mondo che si fa raccontare da vicino è un mondo che, in altre forme e in altre pagine, saprà arrivare lontano.