Corriere della Sera, 21 dicembre 2024
Enrico Bartolini, lo chef più stellato d’Italia
Enrico Bartolini è il cuoco d’Italia con più stelle Michelin, 14. Un primato che non gli impedisce di confessare: «Molti pensano che io sia invincibile. In realtà non lo sono, ho grande paura del fallimento».
Quale è il suo primo ricordo?«La vecchia casa di quando ero bambino. Sento ancora il profumo del ragù di mia zia, bello unto, che si attaccava tutto. E poi la festa del mondiale dell’82».
Invece il primo ricordo da chef?«Chiuso a chiave in cucina a fare il caramello. Avevo 3 anni, andavo all’asilo. La maestra ce l’aveva fatto vedere. Aggiunsi allo zucchero la frutta secca e feci il croccante».
Oltre a cucinare cosa faceva da bambino?«Con i soldatini mi annoiavo. Così rincorrevo i ranocchi e pescavo nel fiume, dove mio zio Lucio metteva le reti. Tutti pesci d’acqua dolce: il luccio, il pesce gatto».
Che figlio è stato?«Inconsapevolmente capriccioso. Quando ho scoperto che le galline facevano le uova, la tentazione di romperle ce l’avevo forte e lo facevo. Mia mamma Maruska cercava di tenermi buono».
Un nome particolare, Maruska.«Glielo aveva dato suo padre, che era comunista. L’altro nonno invece era democristiano. In casa si viveva un’atmosfera da Peppone e Don Camillo. Mamma lavorava tantissimo, aveva una fabbrica di scarpe e il tempo da dedicare alla cucina era poco. Ricordo la sua pasta al pomodoro, non strepitosa: la faceva alle 12, poi arrivava mio fratello alle 12.45, io all’una e mezza... Mi è rimasto talmente tutto nella mente che le ho dedicato un piatto, un pomodorino fatto con la pasta scotta frullata».
E con suo padre, che rapporto aveva?«Lui mi incalzava sempre. Era convinto che avessi delle passioni troppo brevi. Poi a 13 anni decisi di andare a lavorare con lo zio Attilio, che aveva la trattoria Il Colono a Castelmartini. Papà col sorrisino mi disse sì ma pensava che mi sarei stancato. Trovai un casino totale: oltre 600 persone sedute. Il pranzo e la cena erano una guerra. Tutti che urlavano e correvano. Però finita la giornata mio zio faceva una cosa pazzesca: preparava i fegatelli sotto strutto».
In che modo?«Usava una cannuccia di metallo, ci infilava dentro lo stecco, la carne scelta e poi sfilava lo stecco dall’altro lato e rimaneva lo spiedino fatto con il finocchio che insaporiva. Questo spiedo veniva messo nello strutto con il sale, il pepe e un po’ di aromi, e cuoceva lentamente nel bordo del fuoco che si spegneva la sera. Erano i gusti ruffiani di una cucina anni Ottanta che tutt’oggi all’estero è identificata come italiana».
E dopo?«A 14 anni mi sono iscritto all’alberghiero a Montecatini. Finito il primo anno, mi ha ospitato lo chef Franco Pirozzi in un grande hotel di lì. Ho fatto tre anni con lui. Pochi».
Perché pochi?«Ai tempi avevo in testa che una persona inizia un lavoro e lo fa per tutta la vita. Come era successo ai miei genitori o a mio fratello. Quindi quando lo chef mi disse che lì non avevo altro da imparare per me fu una tragedia... Piansi settimane. Andai dal fratello di Franco, Antonio, all’Hotel Croce di Malta. Erano gli ultimi anni d’oro della città termale».
E lì ci rimase più a lungo?«Macché. Anche Antonio mi salutò dicendomi: vattene all’estero, impara le lingue. La scuola mi diede una borsa di studio per Londra. Partii e piansi tutto il viaggio. Lì lavorai con Mark Page al Royal Commonwealth club. L’anno dopo mi iscrissi all’università, ma un mio amico che era a Parigi mi disse di raggiungerlo. Così dopo due esami lo raggiunsi. Scoprii i ristoranti stellati, lo stipendio lo investivo in cene».
Dove, ad esempio?«Il luogo dove ho vissuto di più era Paolo Petrini, in rue di Débarcadère. Mi ero invasato anche di Alain Dutournier al Carré des Feuillants: faceva tanti coperti e aveva una cantina pazzesca. Poi Petrini mi ospitava nei ristoranti di Alain Ducasse. Ero da solo a Parigi. Nei pochi momenti liberi o dormivo o andavo alla Fnac a cercare un cd».
Dopo Parigi?«Sono stato da Fabrizio Barontini, l’unico chef che mi ha spiegato le reazioni chimiche degli ingredienti. Poi andai dagli Alajmo, dove scoprii di avere un palato».
In che senso?«Non che non ce l’avessi. Anche a Parigi mi dicevano che possedevo una sensibilità di naso e di bocca speciali, perché quando assaggiavo una pietanza trovavo subito l’ingrediente che la perfezionava. Però gli Alajmo mi hanno insegnato a usare questo palato. Oggi invece sono lentissimo. Sono così ossessionato dal trovare la sfumatura giusta che per fare un piatto nuovo ci impiego mesi».
Dicembre 2019. Arriva la terza stella al Mudec. Ventisei anni dopo a Milano, per la prima volta dopo Gualtiero Marchesi. Perché decise di aprire in un museo?«Dopo cinque anni al Devero, in Brianza, mi diedero la disdetta. Mi trovai un po’ perso, con venti persone a carico. Iniziai a cercare... Poi vidi il Mudec e mi piacque. Abbiamo fatto in modo che i due percorsi di eccellenza fossero uno al servizio dell’altro. Ma se ci fossero più tre stelle a Milano sarebbe meglio, anche per me».
Cosa servirebbe alla ristorazione italiana d’eccellenza?«Io ho 700 dipendenti. Servirebbe una decontribuzione sul costo del lavoro, cosa che abbiamo chiesto in tanti a tanti. I politici ci dovrebbero ascoltare di più».
Che rapporto ha con la politica?«Mi affeziono alle persone. A Giorgia Meloni auguro il meglio, come lo avevo augurato a Matteo Renzi. Però credo che serva una buona opposizione. Sempre».
Che ricordo ha di Gualtiero Marchesi?«Appena lo conobbi mi prese in simpatia. Un giorno venne e mangiò 12 melanzane moderne che facciamo in aperitivo dal 2015. Pensai: l’ho conquistato. L’indomani mi chiamò e mi disse: “Sei molto bravo ma non ricordo nulla di quel che ho mangiato. Devi impegnarti di più”. Pensai: e le melanzane? Ma non dissi nulla. La volta dopo mangiò i bottoni di olio e lime con salsa caciucco e polpo alla brace. Un piatto del 2010 che è ancora in carta. Marchesi lo mangiò e vidi che c’aveva le lacrimucce...».
Fulvio Pierangelini.«Eravamo a Villa d’Este e dovevamo cucinare insieme. Lui era già un mostro sacro. Bene, vado lì, organizzo il lavoro in modo impeccabile dalla mattina per fare questi 250 ospiti. Sono le 5 e mezza del pomeriggio, non lo vedo; le 6 e mezza, non lo vedo. Alle 7 mi dicono: è arrivato lo chef Pierangelini. Pensai: comincia alle 7, ma dove va? Beh, si mise lì con un passo calmo, aveva male a una gamba, dondolava. Con garbo prese tre padelle, le appoggiò su altre tre. Prese i piccioni e delle noci di burro. Iniziò a cuocere le coscette. Poi i petti. Petto, coscia, contorno, salsa. Il piccione più buono che avessi mai mangiato. Lì capii la capacità di un grande maestro».
Nemici?«Non ne ho. Invece posso dire il primo chef per cui ho intrapreso un viaggio: Carlo Cracco. Era il 2001 e mangiai un’anatra sublime. Davide Oldani è un caro amico. L’ho visto evolversi e trovo che il progetto della Scuola Olmo, una struttura pubblica, sia ammirevole. Poi c’è Enrico Crippa, che stimo molto per il lavoro sul vegetale».
E Cannavacciuolo?«Impossibile non avere un buon rapporto con lui. Ma se dessi io le sue pacche mi denuncerebbero».
Le interessa la tv?«Sono stato ospite a Masterchef. E ho fatto Celebrity chef con Alessandro Borghese, esperienza bellissima. Ma per ora la televisione non è una mia priorità».
Lei però è sposato con un personaggio tv, Roberta Morise. Come vi siete conosciuti?«Attraverso una cara amica con cui venne a cena in un mio ristorante. Mi scrissero per ringraziarmi. Roberta è una donna molto bella e solare. Non pensavo di poterle interessare. Ci siamo rivisti a L’Andana ed è scoccato il colpo di fulmine. Il mio atteggiamento molto serio e garbato l’aveva interessata. Poi è arrivato un figlio. Gianmaria, che ha sei mesi, e il matrimonio. Ho altri tre figli: Tommaso di 17 anni, Giovanni di 11 anni e Vittoria di 9».
Che rapporto ha con loro?«Li vorrei frequentare di più, ma le separazioni sono esperienze complesse. Mentre con Gianmaria ho un’età più matura e una stabilità di coppia, finalmente. Me lo sto godendo. Al mattino gli faccio il bagnetto, ci gioco, gli preparo il latte, lo cambio».
Cosa la fa arrabbiare?«Sono molto emotivo. Se qualcuno delude le mie aspettative vado per aria. Urlo. Quando ero più insicuro, all’inizio della carriera, ho rotto anche dei piatti».
Quale tendenza vede in cucina?«Ora vanno tanto i sudamericani: il Perù, la Colombia. Invece non sopporto la cucina preconfezionata e il sottovuoto».
Sifone sì o no?«Va anche bene, ma il mondo si è evoluto».
Come giudica le guide?«L’unica ad avere budget e ispettori retribuiti è la Michelin. Le altre, comprese quelle italiane, dovrebbero strutturarsi in questo modo per poter fare un lavoro oggettivo».
Arrigo Cipriani ha detto: «Basta stellati, tornino le trattorie».«Amo Arrigo Cipriani. Fa una cucina golosa in un’atmosfera unica. Non mi piacciono certi suoi commenti generici su una categoria, perché non credo abbia visitato tutti gli stellati».
Crede in Dio?«Sono cresciuto con un’educazione cattolica, ma ho più fiducia nelle persone».
Come immagina l’aldilà?«Cenere. Nonostante mi dicano da sempre che esiste la reincarnazione, faccio un po’ fatica a crederci».