https://romeguides.it/2024/09/02/sventramenti-fascisti/, 21 dicembre 2024
Gli sventramenti fascisti
A Roma, ciclicamente, si discute con una certa veemenza su un problema archeologico e urbanistico, ossia sull’opportunità o meno di abolire l’ex Via dell’Impero, oggi Via dei Fori Imperiali che unisce Piazza Venezia e il Colosseo, per creare al suo posto un grande parco archeologico comprendente Foro Romano e Fori Imperiali, che per gran parte sono sepolti sotto il terrapieno della strada.
C’è da supporre che se ne discuterà ancora a lungo, in una serie di “corsi e ricorsi storici” ma, indipendentemente dal risultato al quale si arriverà, la questione ci è utile, all’interno di questo blog, per riflettere dopo circa un secolo sull’attività urbanistica del fascismo, che tante conseguenze (spesso negative) ha avuto nelle nostre città.
L’URBANISTICA PER MUSSOLINICosa fu l’urbanistica per Mussolini? Un’idea chiara di cosa significasse la parola forse il Duce non l’ebbe mai: la considerava piuttosto sinonimo di urbanesimo, inurbamento e simili, cioè l’incremento delle popolazioni delle città per effetto dell’immigrazione dalle campagne.
Da socialista a dittatore, egli manifestò sempre (come nel famoso discorso del 26 maggio 1927) la sua avversione per la “città tentacolare»” e la sua propensione per la campagna e per l’agricoltura: un atteggiamento in cui c’era della ragionevolezza, solo che i mezzi per tradurlo in pratica furono sbagliati e controproducenti. Anziché promuovere una politica economica che ridistribuisse e riequilibrasse popolazione e produzione, egli preferì ricorrere a misure repressive per “sfollare e deflazionare” coattivamente le città e impedire alla gente di andarci ad abitare (si pensi, in tal senso, alle leggi contro l’urbanesimo del 1928 e del 1930).
Quanto all’agricoltura, egli la identificò soprattutto nel concetto di “bonifica integrale” (legge del 1928), cioè nel prosciugamento di terreni acquitrinosi da colonizzare con materiale umano trapiantato dal settentrione, come nel caso delle Paludi Pontine.
In entrambi i casi, il fine fu demografico, in omaggio al culto della natalità, della prolificità e della razza. L’urbanesimo era in tal senso considerato deleterio: per usare le stesse parole di Mussolini, nelle grandi città “le bare superavano le culle”, mentre la politica rurale avrebbe favorito “innesti vigorosi”, con l’Italia che avrebbe fatto sentire tutto il peso della sua forza nella storia del mondo.
Basata su questi principi, la sua si rivelò una fatica di Sisifo.
L’insensata campagna demografica al grido di “il numero è potenza” ingrossava le masse contadine che, per sopravvivere, sarebbero poi venute a cercar lavoro in città (e infatti, nonostante le leggi repressive, negli anni Trenta a Roma si riversò oltre mezzo milione di immigrati); la politica delle opere pubbliche e delle opere del regime, per lasciare un’indelebile impronta fascista nelle città, non faceva che incrementare il fenomeno immigratorio che si voleva combattere; l’avversione per il proletariato industriale rendeva vano ogni sforzo per una migliore distribuzione delle attività produttrici e urtava contro l’altrettanto radicata mania di grandezza che voleva far di Roma una metropoli imperiale; infine, la pratica costante degli sventramenti e delle ricostruzioni intensive attirava immigrati in cerca di lavoro nell’edilizia, mentre si rendevano più depresse le condizioni delle campagne dove la manodopera era sovrabbondante.
GLI SVENTRAMENTI FASCISTINelle città, l’urbanistica fascista può riassumersi in una sola parola: sventramento a opera del “piccone risanatore” ovvero, come Mussolini stesso lo definì, “Sua Maestà il Piccone”.
Tracce indelebili sono state lasciate dappertutto, da Palermo a Cremona, da Bergamo a Genova, da Brescia a Torino, da Como a Sassari, da Lucca a Milano. Il pretesto degli sventramenti era duplice: il risanamento igienico-edilizio e le necessità del traffico, ma i risultati sono stati esattamente opposti a quelli dichiarati.
Risanare non ha mai voluto dire polverizzare quartieri antichi, ma restaurarli e dotarli dei servizi mancanti: gli sventramenti hanno invece provocato, da una parte, la perdita secca e senza contropartita di valori storici, architettonici e ambientali insostituibili e, dall’altra, la deportazione degli abitanti in periferia, in borgate costruite in tutta fretta con i materiali più scadenti, dove la gente, strappata alle sue abitudini e alle sue attività, venne condannata a vivere in condizioni igieniche peggiori di quelle dei vecchi e pur degradati quartieri che venivano distrutti.
Quanto al traffico, i nuovi stradoni con i grossi palazzi costruiti al posto del vecchio tessuto edilizio, ebbero come conseguenza non già il suo alleggerimento, ma il suo ovvio aggravamento e congestione in tutto il centro, man mano che aumentavano le auto, fino alla paralisi attuale. Va da sé che la vera ragione degli sventramenti fu la speculazione edilizia: gli stessi miseri insediamenti costruiti per gli sfrattati dal centro servirono in seguito egregiamente per far salire i prezzi dei terreni circostanti e intermedi, quindi per l’indiscriminata e soffocante espansione a macchia d’olio delle città, a vantaggio dei proprietari terrieri.
Non bisogna naturalmente, in tutto questo, esagerare l’importanza di Mussolini. Egli ebbe solo la forza e l’autorità di realizzare quanto da decenni era previsto dai piani regolatori di età umbertina e successivi, e quanto era proposto dalla cultura ufficiale dell’epoca. Si trattava di una cultura retorica e accademica, che pretendeva di adeguare la città esistente alle esigenze dei tempi nuovi, senza capire che l’operazione da fare era quella inversa, ossia creare la città nuova non sopra ma accanto all’antica, subordinando la soluzione dei problemi moderni (traffico, industrializzazione, urbanesimo) alla salvaguardia della città che ci era stata tramandata nei secoli.
GLI SVENTRAMENTI A ROMAEsemplare fra tutti, per illustrare tali problematiche inerenti l’urbanistica, è il caso di Roma, perché qui l’opera sventratoria venne esaltata fino al parossismo dal culto vizioso per la romanità, in omaggio al quale si pretese di resuscitare fisicamente, quasi con un rito stregonesco, la Roma imperiale, per stabilire una continuità ideale tra questa e la Roma fascista.
A ben voler esaminare i discorsi e gli atteggiamenti di Mussolini, Roma ed i suoi monumenti non suscitarono mai nel Duce emozioni elevate, bensì disprezzo o esaltazione a seconda che gli fosse richiesto dal risentimento momentaneo e dall’opportunismo politico.
Nel 1910 definì Roma “città di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati, centro d’infezione della vita politica nazionale”; nel 1918 se la prese con gli stranieri perché dell’Italia apprezzavano solo i monumenti e quelle antiche rovine che a lui apparivano soltanto come “sassi e calcinacci venerabili solo nella muffa e per gli imbecilli”.
Giunto al potere, però, Roma divenne improvvisamente “il cuore pulsante ed il segno fatale della nostra stirpe”, mentre i suoi monumenti assursero al ruolo di “vestigia imperiture”. D’improvviso, Mussolini scoprì che l’esaltazione della romanità poteva tornargli utile come straordinario strumento di propaganda politica. L’infatuazione romanistica si tradusse subito in un programma di sventramenti che egli annunciò in un discorso del 31 dicembre 1925: “Le mie idee sono chiare, i miei ordini sono precisi. Tra cinquant’anni Roma deve apparire meravigliosa, vasta, ordinata, potente, come fu ai tempi del primo impero di Augusto. Voi continuerete a liberare il tronco della grande quercia da tutto ciò che ancora la intralcia. Farete dei varchi intorno al teatro di Marcello, al Campidoglio, al Pantheon; tutto ciò che vi crebbe intorno nei secoli della decadenza deve scomparire. Entro cinque anni da piazza Colonna per un grande varco deve essere visibile la mole del Pantheon. I monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine”.
Abbiamo qui in sintesi il programma megalomane della falsa urbanistica e della falsa archeologia del periodo fascista, che scambiava semplicemente il passato per l’avvenire. Che senso poteva avere, per una Roma del 1925, prendere a modello la Roma di duemila anni prima?
Considerare Roma una quercia da sfrondare significava non capire nulla della città, distruggendone la continuità storica e la complessa magnifica stratificazione operata dai secoli, dall’antichità ai giorni nostri. Significava anche l’incapacità di porsi di fronte alla città come a un tutto unitario, che proprio nel suo composito tessuto edilizio e ambientale doveva imporsi al rispetto delle persone civili, senza discriminazioni fra più e meno antico, più e meno “monumentale”. Basti, in tal senso, riprendere un frammento del discorso di Mussolini: “I monumenti millenari devono giganteggiare nella necessaria solitudine”. Necessaria a che cosa? La prospettiva era di distruggere il mirabile rapporto tra complessi monumentali ed edilizia minore, per fare di Roma un deserto punteggiato di ruderi isolati, una fredda sequenza antologica in un’atmosfera vagamente metafisica.
Tutta la storia edilizia che si frapponeva fra l’antichità e i tempi moderni veniva considerata come una sorta di deposito alluvionale da rimuovere e setacciare. I monumenti antichi dovevano essere “riscattati”, “redenti” o “liberati”, secondo la bellicosa terminologia di allora, a spese di quanto medioevo, rinascimento, barocco e neoclassico vi aveva costruito intorno e sopra. Tutto quanto non era romano antico non era altro che “ciarpame edilizio” e “catapecchie”, tuguri fatiscenti e miserabili rappresentanti solo un colore locale e sudicio da spazzare via: la gente che vi abitava era considerata alla stregua degli scarafaggi.
Roma non era una città di uomini, ma un astratto fantasma da rievocare e resuscitare a colpi di piccone: il miglior commento sarà quello di Petrolini nel suo Nerone, quando esclamerà ghignando “E domani Roma rinascerà più bella e più superba che pria”.
IL PIANO REGOLATORE DEL 1931Questa fissazione sventratoria venne sancita e ampliata nel Piano Regolatore del 1931, frutto della mediazione di architetti, archeologi ed urbanisti che, se fosse stato attuato per intero, avrebbe, con stradoni incrociati e ricostruzioni intensive, fatto piazza pulita di quasi tutto il centro storico di Roma.
Le principali realizzazioni degli anni Trenta sono: l’isolamento del Campidoglio, l’isolamento del Mausoleo di Augusto, Via della Conciliazione e Via dell’Impero.
Con l’isolamento del Campidoglio venne tracciata la Via del Mare (oggi Via del Teatro di Marcello) e tutto il colle, a cominciare dal 1929, venne selvaggiamente scorticato alla ricerca della mitologica Rupe Tarpea. Furono distrutte due piazze famose, Piazza Aracoeli e Piazza Montanara, ed abbattute cinque chiese medievali e barocche. I monumenti rimasti, come la Chiesa di San Nicola in Carcere, il Tempio di Ercole Vincitore o il Tempio di Portunus, sorgono oggi completamente isolati, quasi spaesati nel mezzo delle loro piccole oasi.
Con l’isolamento dell’Augusteo, che rappresentò il primo vero “colpo di piccone” di Mussolini, il 22 ottobre 1934, si celebrò l’identificazione del Duce con Augusto, di cui fu solennizzato con gran pompa il bimillenario della nascita. Il risultato fu però deprimente, tanto da richiedere una nuova valorizzazione della piazza negli ultimi anni: il Mausoleo risultò incassato nel suolo, essendo il livello di Roma moderna di circa sei metri più alto di quello antico, e fu subito battezzato “dente cariato”. Avrebbe dovuto diventare il “sacrario dell’impero”, ma poi non se ne fece nulla.
VIA DELLA CONCILIAZIONE E VIA DELL’IMPEROI due scempi maggiori, nonché quelli più noti ed evidenti, sono però Via della Conciliazione e Via dell’Impero: la prima per far vedere San Pietro dal Lungotevere, la seconda per far vedere il Colosseo da Piazza Venezia, tanto che qualcuno disse, scherzando ma non troppo, che gli sventramenti fascisti sono stati fatti soprattutto a vantaggio dei fabbricanti di cartoline.
L’idea di Via della Conciliazione nacque nella testa di Mussolini il 21 aprile 1934, quando il Duce decise che “il maggior tempio della cristianità avesse bisogno di un accesso degno dell’Urbe rinata ai suoi destini imperiali”. Il progetto, redatto dagli architetti Piacentini e Spaccarelli, fu presentato a Papa Pio XI e da lui benedetto il 26 giugno del 1936; il primo colpo di piccone fu del 28 ottobre dello stesso anno. Esattamente un anno dopo, cioè nell’ottobre del 1937, con straordinaria furia devastatrice la tabula rasa era compiuta: al posto di quel lungo cuneo di edilizia antica che era la Spina di Borgo e delle due strette strade che fiancheggiandolo (Borgo Vecchio e Borgo Nuovo) portavano a Piazza San Pietro, fu creato l’attuale stradone.
Fu una grande opera di macelleria urbanistica: palazzi, chiese e piazze rinascimentali vennero distrutti, completati con aggiunte fantasiose, spostati o ridotti a tappezzeria stradale: distrutte due chiese, altre due smontate e smozzicate, distrutte due piazze. Quanto all’edilizia minore che faceva da contrappunto a quella monumentale, furono polverizzati oltre mezzo milione di metri cubi, con oltre cinquemila persone cacciate via.
A questo si aggiunga la completa eliminazione di ogni equilibrio e suggestione ambientale. Prima, Piazza San Pietro e la Basilica, come racconta Alberto Sordi in una celebre intervista, erano un’improvvisa scoperta che il visitatore realizzava provenendo dalle due vecchie strade: ora se ne imponeva la visione lontana, assiale, appiattita, e l’ovale berniniano veniva degradato a uno slargo qualunque, eliminando l’effetto sorpresa tipico dell’architettura barocca.
Altro sventramento sciagurato, che più di ogni altra impresa contribuì, grazie a una propaganda martellante, alle fortune di Mussolini in Italia e all’estero, fu la Via dell’Impero, per congiungere il Colosseo con Piazza Venezia, la stessa che all’inizio del secolo era già stata sventrata per la costruzione del gigantesco monumento a Vittorio Emanuele II. Fu iniziata nell’ottobre del 1931, inaugurata da Mussolini a cavallo, alla testa di un corteo di mutilati, il 28 ottobre del 1932, ed infine aperta al pubblico il 21 aprile del 1933. La sua prosecuzione verso il Circo Massimo (la cosiddetta Via dei Trionfi, oggi denominata Via di San Gregorio) venne inaugurata il 28 ottobre dello stesso anno: essa rappresentò l’itinerario che fu fatto percorrere, in mezzo a temporanee scenografie di cartapesta, a Hitler nel maggio 1938, e sarà anche lo stesso lungo il quale, appena sei anni dopo, entreranno in Roma alcune delle colonne motorizzate americane.
Per costruire il chilometro scarso di Via dell’Impero fu polverizzato un grande quartiere, storicamente databile fra il XVI e il XVIII secolo: circa quattromila abitanti, sui camion della milizia, furono deportati nelle infami borgate periferiche. Oltre a uno storico quartiere, però, vennero anche polverizzati anche ingentissimi ruderi antichi che si trovavano sepolti sotto la Velia, la grande collina che sorgeva alle spalle della Basilica di Massenzio: imponenti resti di costruzioni repubblicane e imperiali, di edifici pubblici e privati, criptoportici, cortili e ninfei. Secoli di storia e topografia romana furono distrutti per aprire col tiralinee una vasta strada rettilinea senza tenere in considerazione le importanti documentazioni scientifiche ed archeologiche.
I risultati odierni di questo grande squarcio sono un’enorme spianata di asfalto, che separa una delle maggiori zone archeologiche del mondo in due parti che appaiono separate l’una dall’altra. Per di più, i Fori Imperiali (sulla sinistra di chi da Piazza Venezia va verso il Colosseo) appaiono sprofondati in catini come in seguito ad uno sconquasso sismico, mentre i monumenti sulla destra (dalla Curia alla Basilica di Massenzio) presentano tutti al visitatore il proprio lato posteriore. Infine, di fronte al Colosseo vennero spazzati via i resti della Meta Sudans, un torrione conico alto otto metri (scoprine la storia partecipando al Tour della Roma Imperiale), che rappresentava il residuo monumentale di un’importante fontana romana, della quale restano solo alcune foto.