Avvenire, 20 dicembre 2024
Una storia da Kiev: «Combatto la guerra e il cancro»
Non mi arrendo». Olga Kurtmallayeva lo ripete più volte. E le sue parole fanno da eco al cartello che mostra nelle piazze di Kiev dove scende ogni settimana. «Ho il cancro e mio marito è prigioniero da due anni», ha scritto su un cartone con i pennarelli rossi e blu. Al suo fianco ci sono madri, padri, figli di civili e militari catturati dall’esercito di Mosca e finiti nelle celle di località indefinite. La loro colpa? Essere ucraini che non si sono piegati all’invasore. Olga è donna di lotta e di resistenza: alla guerra, alla ma-lattia, al dramma della detenzione russa che per lei è anzitutto silenzio. Silenzio sulla sorte del suo Ruslan che è caduto nelle mani del Cremlino nei giorni della difesa di Mariupol. «Purtroppo nessuno ci fornisce informazioni sui prigionieri di guerra, come invece è previsto dalle Convenzioni internazionali – racconta la giovane di 25 anni –. Era il 4 aprile 2022 quando il battaglione di mio marito, il 501, è stato accerchiato. Da allora ho ricevuto una sola sua lettera dove c’erano appena quindici parole. Mi diceva che gli mancavo, che mi amava, che sperava di tornare presto. Niente altro. A distanza di oltre trenta mesi, non so dove sia rinchiuso e quale sia il suo stato di salute». Quello di Olga è purtroppo fin troppo chiaro. Il copricapo che le avvolge la testa è solo una conferma. «Quando sono arrivata a Kiev da sfollata, ho saputo di avere il tumore al quarto stadio, il più avanzato». Riprende fiato. «I medici sostengono che lo stress dovuto alla guerra e il fatto che mio marito sia stato catturato e venga sottoposto a torture di ogni tipo abbiano contribuito a far progredire la malattia». L’aveva scoperta nel 2021, un anno prima dell’inizio del conflitto. Suo fratello era morto di cancro. «Ho fatto i cicli di chemioterapia a Mariupol. Poi la città è stata occupata. E tutto si è interrotto». Ha ripreso le cure solo ora che è nella capitale. Lungo le strade si presenta anche lei quando si radunano i familiari dei detenuti di guerra e dei dispersi lungo il fronte. Manifestazioni che si ripetono a cadenza regolare e che abbracciano l’intera nazione: da Leopoli a Kharkiv, da Mykolaiv a Khmelnytskyi, città dell’Ucraina occidentale dove le «azioni di sensibilizzazione», come vengono chiamate, sono arrivate a quota 124. Appuntamenti uniti nel motto «Non possiamo tacere: la prigionia uccide» che ogni giorno portano in piazza centinaia di persone in varie città. Come Yuliya Khrypun, confondatrice di “Civili in cattività”. «È il terzo Natale senza i nostri cari. Vanno liberati subito», spiega durante il sit-in di fronte all’abete delle feste in piazza Sofia a Kiev. Alyona viene da Energodar, la città occupata della regione di Zaporizhzhia che ospita la più grande centrale atomica d’Europa, ora controllata da Mosca. «Sono almeno dodici gli operai che stanno pagando con la reclusione il loro impegno», afferma.
È una delle pagine nere della guerra. Secondo il governo ucraino, sono 55mila i nomi nel registro delle persone scomparse nei quasi tre anni di invasione. «La maggior parte di loro è costituita da militari. E il numero include sia chi è catturato, sia chi può essere deceduto», spiega il vice-ministro degli Interni Leonid Timchenko. Di 7mila le autorità hanno informazioni certe. «Invece non sappiamo dove si trovino tutte le altre persone», afferma Timchenko. Si ipotizza che siano 10mila i segregati ucraini che il conflitto ha fatto finire nei campi di isolamento russi. E poi ci sono i bambini rubati dai soldati di Putin alle famiglie. Una piaga che agita l’opinione pubblica. Tanto da entrare nella “Formula di pace” del presidente Volodymyr Zelensky che al quarto punto prevede la «liberazione di tutti i prigionieri e deportati». Proprio sul rimpatrio dei detenuti e delle salme dei caduti rimane aperto un canale fra Kiev e Mosca. Canale alimentato anche dalla Santa Sede che, per volontà di papa Francesco, ne ha fatto uno dei filoni della diplomazia umanitaria vaticana e della “missione di pace” affidata al cardinale Matteo Zuppi. Dalle mani di Francesco e dalla rete che comprende la segreteria di Stato, le nunziature e il presidente della Cei, passano liste di nomi da far tornare a casa. Fra le ultime che l’Ucraina ha affidato Oltretevere ci sono quelle di giornalisti, civili con quadro clinico critico, soldati feriti ed ecclesiastici incarcerati. La “via di dialogo” è uno spiraglio. Anche se nelle ultime ore il Cremlino ha accusato Kiev di «bloccare il rilascio di 630 militari catturati di entrambe le parti» pubblicando tutti i nominativi, mentre l’Ucraina ha risposto dicendo di lavorare ai rimpatri di Capodanno. Eppure, al di là delle denunce reciproche di ostruzionismo, si sono avuti scambi e restituzioni. Scambi di prigionieri: più di 3.700 quelli scarcerati dai russi in mille giorni. E restituzioni di salme: solo fra ottobre e novembre sono stati riconsegnati da Mosca 1.064 corpi di militari ucraini. «Gli sforzi del governo sono apprezzabili. Ma chiediamo azioni più radicali, anche da parte dei Paesi che ci appoggiano. Perché purtroppo in Russia le condizioni in cui si trovano i prigionieri di guerra e gli ostaggi civili sono terribili. E la nostra gente muore ogni giorno non solo sui campi di battaglia, ma anche nelle celle di Putin», afferma Olga. Nonostante il cancro, è una delle attiviste-simbolo della libertà da restituire agli internati nei “nuovi” gulag. E continua a organizzare «eventi pacifici a sostegno dei prigionieri», come lei li descrive. Li aveva iniziati nell’autunno 2022 a Zaporizhzhia dove era approdata dopo essere fuggita dai territori occupati. Lei è originaria di Berdyansk, la città dove «io e mio marito ci siamo spostati nel 2017. Ruslan è nell’esercito dal 2014. Ha seguito quella che considero la “chiamata del cuore”, ossia il desiderio di proteggere la sua casa e la sua terra». Settanta chilometri separano la loro comunità da Mariupol. Entrambe cadute. «Vivere sotto occupazione è terribile. Il primo mese siamo andati nella piazza principale di Berdyansk con le bandiere gialle e blu per gridare che la nostra era una città ucraina: ci hanno sparato gas lacrimogeno e colpi di avvertimento; poi gli ideatori sono stati arrestati». Oggi il quotidiano di Olga è scandito dalle terapie e dai raduni. Le voci di trattative per fermare le armi si rincorrono. Ma la giovane è categorica: «Non possiamo contemplare negoziati con la Russia che non includano la garanzia di una clausola che assicuri il ritorno fra noi di tutti gli ucraini».