il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2024
Favino superstar di "Napoli-New York"
Pierfrancesco Favino, Napoli-New York è un successo: quattro milioni di euro e dopo un mese ancora sul podio al box office, se lo aspettava?
No, io mi aspettavo anche di più. Sono ambizioso, e qui c’è materiale umano, artistico di un certo tipo: non sono sorpreso del passaparola.
Non è una bolla.
Se sui social tutto sembra un successo, tutto sembra un sold out, come fai a orientarti? Da un paio d’anni a questa parte, il pubblico sta scegliendo i film che vuole vedere. E aspetta magari qualcuno di fidato che gli dica: “Guarda che vale veramente”.
Il film diretto da Gabriele Salvatores ci ricorda che il family non è appannaggio della Disney.
L’idea del family è il nostro cinema, Disney ne ha preso a piene mani. La famiglia Passaguai di Aldo Fabrizi del 1950 era un family italiano, e perfino Totò e Fabrizi con la cocozza sotto il braccio: non l’hanno inventato gli americani.
Il tema dell’immigrazione è centrale.
Io però credo che Salvatores abbia fatto un’operazione molto, molto furba, e cioè abbia usato un’ambientazione che è quella dell’immigrazione, ma in realtà parli di due bambini che intendono farsi la vita che vogliono. Nel momento in cui si parla tanto dei giovani, quasi sempre come se noi li conoscessimo meglio di loro stessi, mi sembra un bellissimo messaggio.
E i migranti che eravamo?
Se metti due orfani su una nave che va in America, non si può non parlare di immigrazione, ma non deve occludere la possibilità di parlare di altro. Di favola, che personalmente mi mancava da Le Cronache di Narnia – Il principe Caspian del 2008: quando scrivono il soggetto negli anni Cinquanta, Fellini e Pinelli non vogliono fare Paisà.
Ci spieghi.
È come se di Miracolo a Milano intendessimo solo il capitalismo e non il realismo magico: Pinelli e Fellini avevano la libertà di poter mettere le mani in situazioni e temi decisamente importanti, ma senza per forza ideologizzare. Napoli-New York non è un film sull’immigrazione, bensì sugli esseri umani, sulla solidarietà e sulla possibilità: lo dico con una boutade, se noi oggi raccontassimo Cappuccetto Rosso finiremmo per mettere l’accento sull’assenza dei genitori.
Invece il suo commissario di bordo Domenico Garofalo?
Potevo giocare con gli archetipi dell’eroe classico italiano, cioè il burbero, il furbacchione. Domenico all’inizio vede nei due piccoli degli infiltrati, poi si affeziona. E se si pensa all’eroe tricolore è quasi sempre così, da Tutti a casa a Il generale Della Rovere: in principio ha qualche cosa di meschino, messo di fronte alla scelta sorprende anche se stesso e tira fuori il cuore italiano. C’è un riscatto.
Rispetto ai protagonisti assoluti cui ci ha abituato, qui i riflettori sono sui piccoli, Dea Lanzaro e Antonio Guerra: Favino, un bagno di umiltà?
Non sono così strategico nelle scelte, la pancia decide per me: da questo film si esce come sotto un plaid, ti riconcilia col mondo, la vita, ti restituisce qualcosa di fronte alle difficoltà del quotidiano. Terminate le riprese, avevo un po’ il sorriso del Gatto Mammone. Tornando alla sua domanda, non mi faccio tanto il problema se son protagonista o no – in questo momento me lo posso permettere, prima no. Il problema…
Il problema?
Ho appena finito Il maestro, per la regia dell’Andrea Di Stefano dell’Ultima notte di Amore, e mi guardavo attorno: 90 persone con cui abbiamo condiviso quasi tre mesi. Questo mestiere non si fa da soli, e mi sembra ancora una cosa quasi rivoluzionaria. Quindi non sto lì a chiedermi: “Che penseranno che non sono protagonista?”.
Del resto, il pericolo è il suo mestiere.
Eh, tante volte. Ci sono situazioni di per sé pericolose, tipo cavalli e staccionate piuttosto che duelli, e poi il dover andare in profondità rispetto ad alcune emozioni, che un po’ spaventa. Dopodiché, ho avuto diversi incidenti sul set, pure fisici.
Ah… anche stuntman!
(Ride) Be’, in un film che ho co-prodotto (Padrenostro di Claudio Noce, con cui ha vinto la Coppa Volpi a Venezia nel 2020, ndr), sicché non mi potevo neanche incazzare col produttore, le cariche che erano su uno sportello mi sono scoppiate in faccia. Fortunatamente, non hanno colpito l’occhio, però abbiamo dovuto cambiare il programma, e aspettare quindici giorni che la ferita si rimarginasse.
Qual è la cura?
Rubo alla coreografa Martha Graham: l’artista non cerca la soddisfazione. L’artista impara a stare comodo nell’insoddisfazione, ad accettare che l’insoddisfazione sia il luogo della creazione. Quasi un luogo perfetto.