La Stampa, 20 dicembre 2024
La Gaza siriana distrutta da Assad
ARMOUK. A gennaio del 2014 una folla di persone disperate si accalca in mezzo alle macerie. Intorno a loro centinaia di metri di edifici distrutti dalle bombe. A otto chilometri da lì, nel centro di Damasco, c’erano i palazzi del potere di Bashar al Assad. Uomini e donne, bambini e anziani gli uni sopra gli altri, emergevano dai detriti di Yarmouk perché il governo e i ribelli avevano raggiunto un accordo per consentire una consegna di cibo nell’area sotto assedio. Centinaia di persone erano morte di fame, e alla notizia di una possibile distribuzione, in migliaia circondati e affamati, avevano cercato di raggiungere una busta di pane, ma non ci sarebbe stato comunque cibo per tutti. Gli aiuti bastavano a malapena per qualche centinaio di persone.Gli umanitari che hanno effettuato quelle consegne hanno poi ricordato che le persone erano così denutrite e emaciate da svenire in strada. Una donna, in fila come gli altri, è morta mentre aspettava una busta di cibo. È possibile ricordare i dettagli di quel momento perché durante la distribuzione i funzionari dell’UNRWA avevano con loro un fotografo che bloccò nel tempo la fame della folla di Yarmouk, consegnandola alla storia.Yarmouk era una gabbia in cui nessuno poteva entrare e da cui non si poteva uscire. Niente cibo, acqua corrente, niente elettricità, niente medicine.La chiamavano, allora, la Gaza siriana. Era una piccola Palestina, un campo considerato la capitale della diaspora palestinese prima che la guerra in Siria lo riducesse a ciò che è oggi.
Moe Nejim ha ventotto anni, è nato, cresciuto e sopravvissuto a Yarmouk. Era uno dei volontari del campo che aiutava i funzionari dell’Unrwa a distribuire cibo.Il prezzo era darne la metà ai soldati di Assad così che potessero rivenderli al mercato nero o tenerli per le loro famiglie. Vive in una piccola casa senza luce con sua moglie Anjia. Si conoscono da quando erano ragazzini, si davano appuntamento per giocare insieme all’angolo della via di fronte, davanti casa di lei. Oggi non esiste più né la via, né la casa di Anja.
Il campo di Yarmouk è stato fondato nel 1957 per ospitare i rifugiati palestinesi fuggiti dalla Nakba del 1948. Dalla sua nascita è stato un centro culturale, politico e intellettuale per i palestinesi in esilio ed è cresciuto fino a diventare un sobborgo della capitale dove, prima della rivoluzione siriana, vivevano 180 mila palestinesi e centinaia di migliaia di siriani della classe operaia.
Bashar al Assad, e prima suo padre Hafez, si sono anche presentati a lungo come alleati della causa palestinese, consentendo ad alcune fazioni palestinesi di operare da Damasco. Anche per questo, all’inizio della rivoluzione, le fazioni politiche di Yarmouk decisero di mantenere una posizione di neutralità. Il campo rimase relativamente calmo e diventò un rifugio sicuro per i siriani in fuga dalla repressione. Ma le cose cambiarono a maggio del 2011.
Il regime siriano aveva incoraggiato i giovani palestinesi a manifestare al confine delle alture del Golan (occupate da Israele) per commemorare la Nakba. I soldati israeliani spararono gas lacrimogeni e proiettili veri contro i dimostranti. I morti furono 17 e i feriti centinaia, mentre i soldati siriani restavano a guardare e impedivano alle ambulanze di raggiungere i feriti.
In molti cominciarono a pensare che Assad avesse usato i palestinesi per distogliere l’attenzione dalle rivolte contro il regime. Così i funerali si trasformarono nella prima di molte manifestazioni anti-regime anche a Yarmouk.
A dicembre del 2012 gli aerei da guerra MiG bombardarono la moschea Abdel Qadir Al-Husseini nel cuore del campo, dove si erano rifugiati gli sfollati interni, provocando decine di morti e le brigate dei ribelli del Free Syrian Army e di Jabhat al Nusra colsero l’occasione per entrare nel campo. Il regime rispose con bombardamenti serrati e un assedio parziale.
Dal luglio del 2013 l’assedio divenne completo, il regime impediva l’ingresso di cibo e aiuti umanitari per i 18.000 civili che restavano intrappolati all’interno.
A metà del 2015 l’Isis riuscì a controllare più della metà del campo. Gli attivisti della società civile subirono fustigazioni e furono giustiziati.
Il regime e i suoi alleati lanciarono un assalto totale al campo nel 2018. Un mese di intensi bombardamenti che ha distrutto quasi tutti gli edifici e le infrastrutture di Yarmouk. Un accordo sponsorizzato dalla Russia consentì ai membri dell’ISIS e alle loro famiglie di essere evacuati nel deserto a est di Suweida e la popolazione civile fu sfollata con la forza.
Gli anni in cui un chilo di riso costava anche 80 dollari, gli anni dell’acqua contaminata e del tifo. Degli anziani scheletrici perché erano gli ultimi a mangiare il poco che c’era. Gli anni in cui la fame aveva portato l’imam della moschea più grande di Yarmouk a emettere una fatwa che consentiva alle persone di mangiare cani e gatti per sfamarsi.
Un giorno mentre tornava a casa, al campo, all’inizio del 2013, è stato arrestato a un check point di ingresso e detenuto 58 giorni a al Tadamon, accanto al luogo in cui, lo avrebbe scoperto solo dopo, si è consumato il massacro di Tadamon. Era aprile del 2013, i soldati affiliati al regime giustiziarono 40 persone nei pressi della moschea di Othman, gettandole in una buca in mezzo a una strada disabitata. Dopo aver giustiziato tutti, uno alla volta, i soldati di Assad diedero fuoco ai corpi bruciando pneumatici che erano stati precedentemente posti sul fondo della fossa. Durante le esecuzioni, gli occhi delle vittime vennero bendati con nastro adesivo o pellicola trasparente e le loro mani vennero legate con una cinghia di plastica solitamente usata per raccogliere e riparare i cavi elettrici.
«Dopo aver perquisito il mio telefono e trovato le foto delle manifestazioni – racconta Moe Nejim – mi hanno chiesto di scrivere i nomi dei miei amici attivisti nel campo. Mi sono rifiutato di scrivere e sono stato torturato e frustato con una frusta, hanno spezzato dei bastoni di legno sul mio corpo, le ossa delle mie dita sono state schiacciate con un ferro da stiro, le mie mani sono state bruciate con mozziconi di sigaretta, la mia faccia è stata sbattuta contro le pareti e mi hanno preso a pugni violentemente fino a farmi perdere conoscenza. Ho sanguinato due giorni sul pavimento».
Aveva diciotto anni e dice di essere diventato uomo sulla memoria di quei giorni e dei suoi torturatori, cinque persone, uno in particolare che lo torturava «per divertimento».
Dopo due mesi suo padre ha trattato – cioè pagato – e Moe è stato rilasciato. Porta ancora sul collo i segni dei tagli che gli hanno fatto con i coltelli affilati.
Tutti quelli che hanno aiutato il regime a tenersi in piedi. Non solo i russi, non sono l’Iran. Tutti quelli che hanno taciuto, perché costretti, o perché non avevano coraggio.
«Possiamo perdonare chi ha taciuto lavorando in un negozio o in ufficio, chi ha fatto finta di non sapere e non vedere perché aveva figli da sfamare. Ma non possiamo perdonare i torturatori, e erano centinaia, migliaia».
Per questo Moe ha scritto la sua storia. Ha tenuto i dettagli della sua prigionia a memoria per dieci anni. Non li ha scritti da nessuna parte, per paura che qualcuno trovasse i suoi taccuini o sequestrasse il suo computer.
L’8 dicembre, prima ancora di scendere in piazza a festeggiare ha scritto pubblicamente ogni particolare delle torture che ha subito. Conosce il nome e il cognome del suo torturatore, ricorda il suo volto. Ha scritto perché vuole giustizia.Quando vede i miliziani di Hayat Tharir al Sham dice che conosce il loro passato e che la guerra lo ha fatto diventare saggio abbastanza da essere diffidente sempre, ma che ora è tempo di rispettarli, un sentimento che viene prima della fiducia. Dobbiamo dargli un’opportunità, perché sono riusciti a fare quello in cui tutti voi avete fallito, liberarci da Assad.