Corriere della Sera, 20 dicembre 2024
Nicola Piovani tra musica e cinema
«Non mi ricordo un giorno in cui nella mia vita non ci sia stata la musica, non solo perché la scrivo, la dirigo, la suono, ma soprattutto perché la mia attività costante è ascoltare musica, frequentando concerti o sentendo dischi». Nicola Piovani, come accade da un po’ di tempo, entrerà nel nuovo anno suonando su un palco, in compagnia del suo pubblico. All’Auditorium Parco della Musica di Roma, di cui è artista residente, va in scena il 26, il 28 e il 31 dicembre con Note a margine, in cui suonerà e racconterà la sua carriera «con aneddoti, ricordi, valutazioni magari marginali ma che per qualche motivo sono ben fissati nella mia memoria». Di cose da ripercorrere ne ha tante. Tre film con Federico Fellini, l’Oscar per la colonna sonora per La vita è bella di Roberto Benigni, due album con Fabrizio De André, gli anni di teatro musicale con Vincenzo Cerami, i sodalizi con Marco Bellocchio, Mario Monicelli, Nanni Moretti, i fratelli Taviani... E intanto sono in arrivo le musiche per l’opera lirica Romanzo Criminale, con la regia di Massimo Popolizio, al debutto nel 2026.
L’incontro con la musica da bambino?«Carnale, fatto di radio accese nel condominio, della mia prima fisarmonica giocattolo, di massaie che cantavano facendo i lavori domestici, di processioni parrocchiali, di serenate in campagna. I miei genitori non avevano una cultura musicale classica, ma papà suonava la tromba in una banda, mamma era appassionata di Gino Latilla, Domenico Modugno, Claudio Villa, e la passione per la musica me l’hanno trasmessa. A volte penso che, se fossi nato in una famiglia di musicologi, avrei avuto forse più nozioni sulla musica, ma l’amerei di meno. I musicologi non sempre amano la musica».
Quanto ha avuto di più rispetto a ciò che quel bambino sognava?«Molto. Mi sento in credito con la fortuna. Da adolescente, l’aspirazione era vivere facendo musica. Crescendo, è diventata: fare musica nel cinema. La musica leggera non mi affascinava, quella dotta era asfissiata dall’egemonia avanguardistica e dai dettami del post cacofonia, il cinema sembrava promettere libertà. Ogni tanto, i sogni si realizzano».
Come inizia la passione per le colonne sonore?«All’inizio, frequentavo i cinema sotto casa al quartiere Trionfale e all’epoca quelli dei quartieri popolari davano film comici italiani e film di Hollywood. Poi, a 15 o 16 anni, corteggiando una ragazza, scoprii i cineclub d’essai. Vidi Il settimo sigillo di Ingmar Bergman e scoprii che la musica per il cinema era una forma d’arte».
Gavetta faticosa?«Non la definirei gavetta perché anche quando mi guadagnavo l’affitto suonando il piano in cabaret qualunquisti mi divertivo perché facevo comunque musica. Era più faticoso magari accompagnare Bobby Solo, perché implicava lunghe tournée. Ma poi fu divertente lavorare in un locale sotto casa: stavo nel centro storico che era ancora abitabile; di giorno, studiavo composizione, la sera suonavo alle Grotte del Piccione».
Perché il centro di Roma non è più abitabile?«Vengo da un quartiere che viveva intorno a un mercato all’aperto, pieno di voci dalle sonorità seduttive, magari prive di galateo ma ricche di invenzioni linguistiche. Oggi il Trionfale, come il centro, pullula della barbarica musicalità del turismo. Mi dicono che il turismo è una risorsa per l’economia e credo sia vero, ma è un inferno per i residenti, quelli resilienti, che ancora non sono stati indirizzati verso quartieri periferici. Non polemizzo: mi limito a evitare il centro o a frequentarlo in ore in cui i turisti dormono».
L’impatto con Fellini?«Ricordo la prima volta che venne a casa: abitavo in Piazza Madama in affitto da Vincenzo Cerami, un terzo piano magnifico, l’unico inconveniente era che al secondo piano viveva una vecchietta paranoica, che usava coprire di insulti tutti quelli che salivano da me e io ero preoccupato che lo facesse anche con Fellini, ci tenevo a fare bella figura. Quando sento il citofono, apro ma Fellini non arrivava. Dopo un po’, scendo le scale e vedo la porta dell’arpia socchiusa: sbircio e lo vedo seduto in salotto mentre beve una bibita con la megera conversando amabilmente. Aveva un’umanità fuori dall’ordinario. Il rapporto con lui non si limitava allo stretto spazio-tempo del lavoro, ma travalicava in lunghe cene, telefonate, chiacchierate... C’era il tempo per lo scherzo. Da lui ho imparato tanto di cinema, ma tanto di più della poetica del quotidiano».
A una frase di Fellini ha rubato il titolo della sua autobiografia, appena ripubblicata dalla Nave di Teseo: «La musica è pericolosa». Perché è pericolosa?«Lui la riferiva al panico che gli generava la commozione musicale. Io l’ho scelta perché è una frase che, metaforicamente, paradossalmente, mi appartiene. Riferita a una pericolosità gioiosa, bella, adolescenziale».
Che cosa ricorda dell’incontro con Roberto Benigni?«Avvenne sul set del Minestrone di Sergio Citti, in cui lui era attore e io facevo le musiche. Anni dopo, mi chiamò per La vita è bella. Ricordo che volle recitarmi a memoria tutto il copione. Lo sapeva parola per parola».
Come visse l’Oscar per la colonna sonora?«Il premio arrivò inatteso, dati i calibri delle nomination in concorso nella mia cinquina. Ero felice, ovviamente, e ricordo che il capitano e l’equipaggio dell’aereo di ritorno mi fecero viaggiare in cabina con loro, con la statuetta sul cruscotto».
Dove la tiene oggi?«In una cassetta di sicurezza: so che le rubano».
Di premi ne ha vinti tanti, anche quattro David di Donatello, tre Nastri d’argento... Che effetto le fanno?«Il successo è bello e gratificante: ma è un participio passato. È ciò che è successo. Quando ricevo un riconoscimento il pavone vanitoso che abita in me scodinzola, me lo godo con gioia. Ma poi lo metto nella teca e riprendo il mio lavoro guardando avanti. Vivere troppo con la testa girata a poppa anziché a prua, alla lunga, ottunde il cervello e l’anima».
Di recente, ha scritto su Instagram che la accomunava a Fabrizio De André la battaglia contro la musica di sottofondo. Perché la detesta?«Ormai voglio smettere di parlarne perché, da quando ho iniziato, il fenomeno non solo non si è placato, ma sta crescendo in modo esponenziale. Ora la mettono pure nelle farmacie. La musica è un’arte e non si può mortificare coprendola coi rumori. Ma la mia è una causa persa».
Quando compone, come arriva l’ispirazione?«Sinceramente, per evitare risposte misticheggianti, mi viene di dire “boh!”. Da dove arriva l’ispirazione? “D’o cièlo”, dicono i napoletani».
Un brano che la commuove ogni volta?«L’ultimo movimento della sesta di Beethoven: il divino e l’umano raccolti nel mistero di poche note».
Un momento che le ha fatto benedire la sua professione?«Quando mi ha fermato la polizia stradale ed ero senza documenti: per fortuna, un agente, appassionato di musica, mi ha riconosciuto, si è fidato di me e mi ha lasciato arrivare a casa con la mia auto».
C’è un capolavoro che si riconosce?«Di capolavori ne ho realizzati solo due, i miei figli: Duccio e Rocco e tutti e due hanno avuto il buonsenso di intraprendere carriere scientifiche, lontane dalla musica. La musica la frequentano con passione, ma per diletto».
Lei ha 78 anni, con che spirito si avvia agli 80?«Penso alla fortuna di esserci arrivato. In senso fisico, meglio non parlarne, ma in senso mentale, non mi sento molto diverso da quando avevo vent’anni».