Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 20 Venerdì calendario

Gisèle che ha rinunciato alla privacy per la giustizia

PARIGI Il paradosso di Gisèle Pelicot è di essere diventata, suo malgrado, una star mondiale, ammirata per le doti straordinarie di coraggio e dignità, imprevedibile donna copertina 72enne su decine di giornali di ogni Paese, dal Vogue tedesco al comunista L’Humanité, ma in virtù di un processo dove lei ha voluto sottolineare e denunciare «la banalità dello stupro» e della sua storia, l’ordinarietà delle violenze subite e anche di coloro che le hanno commesse: il marito coetaneo tecnico informatico poi pensionato, ma anche gli altri 50 uomini della porta accanto. Falegname, cuoco, piastrellista, camionista, informatico, pompiere, infermiere, manovale, idraulico, fattorino, imbianchino, agente penitenziario, soldato, giornalista, giardiniere, ristoratore, elettricista, panettiere, e così via. Non mostri, gente apparentemente comune, uomini come ce ne sono tanti.
Prima del 2 settembre, giorno di inizio del processo, della donna che era stata drogata e violentata per dieci anni si taceva il nome, ricorrendo al nome falso «Françoise» per proteggere la privacy e difenderla dalla vergogna. Lei invece ha deciso di applicare, dalla prima udienza, quello slogan sentito tante volte – «sono gli altri a doversi vergognare» – e non solo ha voluto testimoniare a testa alta, con il suo vero nome, ma ha anche preteso che il processo non si svolgesse a porte chiuse come aveva previsto il tribunale di Avignone ma fosse aperto a tutti, giornalisti compresi, e che davanti a tutti venissero proiettati in aula gli atroci video registrati, custoditi e catalogati dal marito.
Lei priva di sensi, lei che russa, gli arti che vengono spostati di peso per permettere le penetrazioni di uomini reclutati dal marito sul sito illegale Coco.fr (poi fatto chiudere). Uno di loro, in un video, durante la violenza su lei inerte fa il segno «V» di vittoria, ennesima conferma che sono gli stupratori a doversi vergognare, non certo la vittima.
Quando è uscita dall’aula, ieri mattina, dopo l’annuncio delle condanne, Gisèle Pelicot è stata accolta dagli striscioni e dalle grida «Merci Gisèle» di tante donne e uomini venuti da tutta la Francia, e lei ha pronunciato qualche ultima parola per dare un senso a «una prova durissima» durata tre mesi e mezzo.
«Aprendo le porte del processo ho voluto che la società potesse trarre vantaggio da quel che si diceva in aula – ha detto la signora Pelicot —, e non mi sono mai pentita della decisione. L’ho fatto perché spero di aiutare le altre donne, le vittime non riconosciute, le cui storie rimangono spesso nell’ombra». Tra i tanti cartelli dei sostenitori c’è quello con la cifra «86%», ovvero la percentuale delle denunce per violenza sessuale che in Francia rimangono senza seguito, per mancanza di prove o per inefficienza dalla macchina giudiziaria.
Gisèle Pelicot ha voluto mantenere il cognome del marito stupratore, dal quale ormai è divorziata, «perché i miei figli e i miei nipoti che lo portano non si debbano a loro volta vergognare». I suoi occhiali tondi, le rughe e i capelli rossi sono diventati i segni di un’icona globale, disegnata nei murales in tutte le città di Francia e in tanti altri Paesi di tutti i continenti. Un destino che certo non avrebbe mai immaginato, lei che da bambina sognava di fare la parrucchiera e poi ha studiato da dattilografa, prima di trovare posto come impiegata nell’azienda dell’energia Edf.
Figlia di un militare di carriera e per questo nata in Germania, arrivata in Francia all’età di cinque anni, Gisèle Pelicot ha perso la madre per un cancro quando aveva nove anni, «ma nella mia testa ne avevo già 15, ero una piccola donna. In famiglia si nascondono le lacrime e si condividono le risate». Nel 1971 l’incontro con la 2CV rossa di Dominique Pelicot, futuro marito e violentatore.