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 2024  dicembre 19 Giovedì calendario

sinistra o destra ma sempre anfibio un libro ripercorre la storia delle celebri scarpe, nate in germania alla fine della seconda guerra mondiale ma presto arrivate in Inghilterra per diventare simbolo di ribellione

sinistra o destra
ma sempre anfibio
un libro ripercorre la storia delle celebri scarpe, nate in germania alla fine della seconda guerra mondiale ma presto arrivate in Inghilterra per diventare simbolo di ribellione. qualunque
fosse: mod o skinhead, goth o punk. un’icona ancora oggi amata più che mai. in strada e passerella
 
 

sinistra o destra

ma sempre anfibio

un libro ripercorre la storia delle celebri scarpe, nate in germania alla fine della seconda guerra mondiale ma presto arrivate in Inghilterra per diventare simbolo di ribellione. qualunque

fosse: mod o skinhead, goth o punk. un’icona ancora oggi amata più che mai. in strada e passerella

 

 

La cabina telefonica rossa, l’autobus a due piani, il tè delle cinque, e le Dr. Martens. Sono tra le prime immagini che vengono in mente pensando alla Gran Bretagna, se non fosse che le famose scarpe nacquero in Germania, come calzature ortopediche, e il libro Street Style: Dr. Martens di Jian DeLeon (Bonnier Books) spiega in che modo diventarono sinonimo di ribellione, con epicentro Londra e ora più diffuse che mai nello street style globale che sta ripescando a piene mani dagli anni 90. La musica c’entra tutta, ma bisogna fare qualche passo d’anfibio indietro, al 1945. A guerra finita, il venticinquenne Klaus Maertens si ruppe un piede sciando vicino Monaco e scoprì quanto gli rendessero difficile il recupero quei duri e scomodi stivali in cuoio che usava da quando era stato medico nell’esercito tedesco. Si munì di ago e scarti di pelle morbida, ricavò da vecchi pneumatici un’innovativa suola con cuscinetto d’aria, e creò il prototipo poi realizzato con l’amico ingegnere Herbert Funk in un magazzino di Seeshaupt, tra gomme dismesse e forniture militari.

Le Dr. Maertens Airwair nel 1947 ebbero successo immediato tra le signore di una certa età, l’80 per cento della clientela, felicemente ammortizzate. Nel 1959 la licenza del prodotto venne acquistata dalla ditta britannica Griggs, specializzata in scarponi per esercito e minatori, che addolcì il disegno delle Schnürschuhe di memoria nazista, mise il distintivo orlo giallo, il passante sul tendine, e anglicizzò il marchio in Dr. Martens. Il primo modello uscì l’1° aprile 1960, dando nome ai classici anfibi 1460 con otto buchi, quelli, per capirci, su cui molleggiavano i Madness e con cui assaltavano i palchi gli Who. Non avvenne subito. Prima si diffusero come scarpe da lavoro, comprate per due sterline da muratori, postini, giardinieri, pompieri, e poliziotti che annerivano la cucitura gialla per non essere notati durante le ronde notturne. Di lì a poco sarebbero state scelte da chi l’autorità la contestava, riuscendo nell’impresa funambolica di rappresentare sia l’ordine che il disordine. Lo scarponcino, proprio perché anti-moda e identificativo della classe operaia, fu inglobato nel look dei giovani proletari, mentre nella società montavano rabbia e malcontento.

Da oggetto utile passò a simbolo, con pioniere Pete Townshend che si svincolava dalle mise hippie. «Ero stufo di vestirmi da albero di Natale con abiti fluenti che mi impedivano di suonare la chitarra», disse il chitarrista degli Who. «Sono passato a un abbigliamento tecnico che mi ricordava l’ambiente operaio in cui ero cresciuto». E che gli permetteva esibizioni scatenate, con sfascio di strumenti sul finale. I Mods, suoi fan, adottarono le “Docs”. Spuntano infatti sotto gli abiti di taglio italiano, in Lambretta nel film Quadrophenia, e già in Tommy il mago del flipper interpretato da Elton John ne indossava un paio alto un metro e mezzo, il più grande al mondo, oggi esposto al Northampton Museum.

Orgoglio proletario

Gli anfibi divennero irrinunciabili per chi voleva mostrare fiera appartenenza alla working class, vedi gli skinheads, che battevano le strade con capelli corti, jeans arrotolati, bretelle e Dr. Martens. Sul finire degli anni 60, quella sottocultura era aperta allo stile giamaicano portato in periferia da immigrati afroamericani, e alla musica che integrava elementi ska, rocksteady, reggae. Più tardi, una frangia si spostò all’estrema destra e incattivì l’aspetto: teste rasate e bomber, ma sempre Dr. Martens ai piedi. Se ne incontravi un paio rosso ciliegia con quattordici buchi, conveniva cambiare marciapiede. Il fatto è che anche gli antirazzisti e gli attivisti di sinistra camminavano con identiche scarpe.

Come distinguerli? In strada c’era bisogno di riconoscere amici e nemici, affini e ostili, quindi il colore dei lacci fu eletto a codice: neri per i neutrali; bianchi per suprematisti e neonazi; rossi per chi era pronto a spargere sangue in difesa della razza bianca, e indossarli era un diritto che il membro della gang doveva guadagnarsi. Blu per chi detestava le forze dell’ordine; gialli contro la discriminazione e per l’inclusione; viola per la comunità Lgbt, verso la quale il marchio è ancora solidale, sostenendo marce queer, Pride, e dipendenti: il 30 per cento dello staff globale Dr. Martens si identifica come Lgbtqia+.

Insomma, una scarpa per opposte ideologie, persino per nichilisti e anarchici. Cresta e Docs erano l’abbinamento dei punk a fine anni 70. Le guardie che ogni tanto li portavano via in manette, avevano i loro stessi stivali. Uguali ai Clash e ai Sex Pistols. Poi ai New Romantics, ai goth, ai metallari. Uguali a Siouxsie Sioux, artista che trasformò l’accessorio maschile in emblema di empowerment femminile, seguita da PJ Harvey, Sinéad O’Connor, Dolores O’Riordan (che citava le Dr. Martens nella canzone The Rebels), Gwen Stefani, fino a Lady Gaga e a Miley Cyrus nuda ma con anfibi nel video di Wrecking Ball.

La rinascita post-rock

Se a Londra le Dr. Martens avevano già una Mecca nel quartiere di Camden Town, negli Stati Uniti si vendettero solo a partire dal 1984. Will Smith le sdoganò in tv con Il Principe di Bel Air; nei 90 ci pensarono Eddie Vedder, Chris Cornell e Kurt Cobain a risuolarle di grunge, associate a camicie di flanella e cardigan di seconda mano. Poi arrivò il Britpop a contestare quell’apologia del perdente, però Damon Albarn dei Blur lo fece indossando gli stessi anfibi 1460. Cambiavano i generi, non le scarpe, a turno investite di un significato diverso, ma chiaro a tutti. Finché non cambiò proprio la musica. Non a caso il declino del brand coincise con quello del rock e delle comunità che sapeva formare.

Nel 2003 l’azienda rischiava la bancarotta ed esternalizzò la produzione in Cina e Thailandia. Le Made in England fatte nella fabbrica originale del Northamptonshire sono ormai a edizione limitata, e molto più costose. Data la durevolezza, erano state anticonsumistiche (più vissute, più valevano), ma per rialzare le vendite ci sono volute sfilate, collaborazioni con stilisti (Yamamoto, Gaultier, Vuitton, Maison Margiela), modelli-tributo a gruppi come Smiths, Joy Division, Clash, Who, ai graffiti di Keith Haring, ai dipinti di Basquiat. Da oggetto personalizzabile a stampa seriale. Da street a chic. Va così la parabola: sono poche le espressioni anti-sistema che poi non vengono risucchiate e disinnescate. 

Attualmente le Dr. Martens hanno migliaia di varianti e le indossano anche i bambini. Nonostante l’hip hop preferisca le sneakers, le abbiamo viste ai piedi di Travis Scott e di Pharrell Williams, che le ha scelte per il giorno della sua laurea. Talvolta si rinnova un’appartenenza, come fa la Mercoledì Addams di Tim Burton, che balla sui Cramps, è fedele all’estetica dark, smetterà di vestirsi di nero solo quando inventeranno un colore più scuro, e ha un’intera collezione dedicata.

Ma sorreggono anche le gambe delle nuove popstar Billie Eilish e Olivia Rodrigo, dive da red carpet, supermodelle, influencer. Sono una sorta di post-calzature. Senza più codici da decriptare, senza più radicamento in un movimento o nell’altro, mettono insieme tutti, in stile playlist. In fondo, anche stavolta non mancano di incarnare un’epoca.

Simona Orlando

 

 

 

 

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Come distinguerli? In strada c’era bisogno di riconoscere amici e nemici, affini e ostili, quindi il colore dei lacci fu eletto a codice: neri per i neutrali; bianchi per suprematisti e neonazi; rossi per chi era pronto a spargere sangue in difesa della razza bianca, e indossarli era un diritto che il membro della gang doveva guadagnarsi. Blu per chi detestava le forze dell’ordine; gialli contro la discriminazione e per l’inclusione; viola per la comunità Lgbt, verso la quale il marchio è ancora solidale, sostenendo marce queer, Pride, e dipendenti: il 30 per cento dello staff globale Dr. Martens si identifica come Lgbtqia+.
Insomma, una scarpa per opposte ideologie, persino per nichilisti e anarchici. Cresta e Docs erano l’abbinamento dei punk a fine anni 70. Le guardie che ogni tanto li portavano via in manette, avevano i loro stessi stivali. Uguali ai Clash e ai Sex Pistols. Poi ai New Romantics, ai goth, ai metallari. Uguali a Siouxsie Sioux, artista che trasformò l’accessorio maschile in emblema di empowerment femminile, seguita da PJ Harvey, Sinéad O’Connor, Dolores O’Riordan (che citava le Dr. Martens nella canzone The Rebels), Gwen Stefani, fino a Lady Gaga e a Miley Cyrus nuda ma con anfibi nel video di Wrecking Ball.
La rinascita post-rock
Se a Londra le Dr. Martens avevano già una Mecca nel quartiere di Camden Town, negli Stati Uniti si vendettero solo a partire dal 1984. Will Smith le sdoganò in tv con Il Principe di Bel Air; nei 90 ci pensarono Eddie Vedder, Chris Cornell e Kurt Cobain a risuolarle di grunge, associate a camicie di flanella e cardigan di seconda mano. Poi arrivò il Britpop a contestare quell’apologia del perdente, però Damon Albarn dei Blur lo fece indossando gli stessi anfibi 1460. Cambiavano i generi, non le scarpe, a turno investite di un significato diverso, ma chiaro a tutti. Finché non cambiò proprio la musica. Non a caso il declino del brand coincise con quello del rock e delle comunità che sapeva formare.
Nel 2003 l’azienda rischiava la bancarotta ed esternalizzò la produzione in Cina e Thailandia. Le Made in England fatte nella fabbrica originale del Northamptonshire sono ormai a edizione limitata, e molto più costose. Data la durevolezza, erano state anticonsumistiche (più vissute, più valevano), ma per rialzare le vendite ci sono volute sfilate, collaborazioni con stilisti (Yamamoto, Gaultier, Vuitton, Maison Margiela), modelli-tributo a gruppi come Smiths, Joy Division, Clash, Who, ai graffiti di Keith Haring, ai dipinti di Basquiat. Da oggetto personalizzabile a stampa seriale. Da street a chic. Va così la parabola: sono poche le espressioni anti-sistema che poi non vengono risucchiate e disinnescate. 
Attualmente le Dr. Martens hanno migliaia di varianti e le indossano anche i bambini. Nonostante l’hip hop preferisca le sneakers, le abbiamo viste ai piedi di Travis Scott e di Pharrell Williams, che le ha scelte per il giorno della sua laurea. Talvolta si rinnova un’appartenenza, come fa la Mercoledì Addams di Tim Burton, che balla sui Cramps, è fedele all’estetica dark, smetterà di vestirsi di nero solo quando inventeranno un colore più scuro, e ha un’intera collezione dedicata.
Ma sorreggono anche le gambe delle nuove popstar Billie Eilish e Olivia Rodrigo, dive da red carpet, supermodelle, influencer. Sono una sorta di post-calzature. Senza più codici da decriptare, senza più radicamento in un movimento o nell’altro, mettono insieme tutti, in stile playlist. In fondo, anche stavolta non mancano di incarnare un’epoca.
Simona Orlando
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