il Giornale, 19 dicembre 2024
I drusi di Siria: meglio Israele di Al Quaida
«Gli uomini forti sono l’onore del Paese» è la cantilena più ripetuta dalle decine di armati fino ai denti, che dalla zona di Damasco sono arrivati a Sweida, vicino al confine con la Giordania, la roccaforte drusa. Dopo aver sventolato bandiere multicolore ripetendo a gran voce il loro inno di battaglia si inginocchiano in silenzio davanti allo sheik, Yousuf al Jarbu. Barbone d’argento, tenuta nera e tipico copricapo bianco dei leader drusi, arringa i combattenti di Karama, dignità, uno dei gruppi armati di questa comunità guerriera.
Sweida, 120mila abitanti, è la roccaforte drusa nel Sud della Siria, dove non comanda il gruppo con pedigree jihadista che ha conquistato Damasco. I drusi non hanno mai amato la dinastia Assad, che pure in questa città si è sciolta come neve al sole. Però hanno combattuto duramente contro il Califfato. Sweida è difesa da 2mila volontari in armi, che non intendono mollare il potere a nessuno. E su Israele hanno idee ben diverse rispetto ai nuovi conquistatori. «Il vecchio regime ha messo in testa a tutta la popolazione siriana che Israele è il nemico – spiega Ziad, in mimetica – Non è così. Ci sono molti drusi in Israele che sono nostri fratelli e nonni».
Una sentinella con elmetto e giubbotto antiproiettile all’ingresso di Liwa al Jabal, uno dei gruppi di volontari della difesa di Sweida, saluta con un cordiale «Salam aleikum», la «pace sia con te». Una decina di armati, compreso il figlio del comandante che ha soli 15 anni, sono schierati, in attesa, con la bandiera rossa e i fucili incrociati sullo sfondo. «Rifiutiamo il radicalismo, la sharia e lo Stato islamico – ribadisce il comandante Shaker Azzam – Su questo non negozieremo mai». Alla domanda su quanti uomini possono mobilitare risponde con un sorriso sornione: «Ogni druso di questa città, se necessario, è pronto a difendere la comunità».
Ziad, che ha un cappellino del Venezuela e parla inglese, ci scorta agli obiettivi sensibili della città. La prima tappa è alla chiesa cristiana. «Le nostre forze proteggono Sweida, specialmente le chiese, le moschee e altri luoghi simbolo» sottolinea Ziad schierando gli armati nel piazzale esterno, dove sorge un rudimentale presepe in vista del Natale. La seconda tappa è la sede della banca centrale presidiata da un manipolo di drusi con pick-up e mitragliatrice pesante sul cassone. A fianco c’è «la tana del diavolo, la base dell’intelligence – sibila Ziad – dove torturavano la gente». I combattenti drusi fanno scorrere il pesante cancello di ferro con ancora la bandiera a due stelle del deposto regime. Su un murale che raffigura Bashar al Assad, il padre e il fratello scomparsi, c’è scritto con lo spray «il bastardo è fuggito». La base dell’intelligence è stata messa a soqquadro e i prigionieri liberati dal sottoscala pieno di celle minuscole con un letto in pietra e una finestrella, che solo vederla ti toglie il respiro. Un volontario druso mostra come bendavano i detenuti e legavano le mani del poveretto dietro la schiena per poi infierire con interrogatori e torture.
«Sappiamo bene che i nuovi al governo, prima di conquistare il potere, erano di Al Qaida – sottolinea lo sheik dei drusi – Ci hanno garantito che rispetteranno tutte le comunità. Vediamo se manterranno le promesse». E ribadisce che «Israele non è un nemico, ma neppure un amico». Un giovane di Sweida, che chiede di non scrivere il suo nome, si spinge più in là: «Se dovessi scegliere fra Israele e lo stato islamico non avrei dubbi e preferirei Israele».
La strada del ritorno verso Damasco è disseminata di mezzi militari abbandonati dai governativi e cannibalizzati dai siriani per vendere qualche pezzo. In una grande base aerea, un tempo off limits, ci sono ancora i caccia, derelitti, negli hangar e le bombe russe agganciate sotto le ali. Un carro armato, da dove spuntano le uniformi abbandonate dai soldati nell’8 settembre siriano, è fermo a un incrocio. Ancora piazzato davanti a un murale con la faccia dell’ex presidente Assad cancellata, ma la scritta è rimasta: «Saremo sempre con te».
Alle porte di Damasco, da un centro abitato a poche centinaia di metri dalla strada principale, si alzano pesanti colonne di fumo nero da tre focolai d’incendio che illuminano in maniera spettrale l’imbrunire. Bombardamenti israeliani oppure saccheggi di appartamenti a disposizione degli ufficiali dell’esercito di Assad. Poco distante si sentono esplosioni e il crepitare delle armi da fuoco.