la Repubblica, 19 dicembre 2024
Cognetti e la sua malattia psichica
Paolo Cognetti, scrittore e regista, è stato dimesso martedì dal reparto di psichiatria dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. L’autore de Le otto montagne, al cinema durante le prossime festività con il suo Fiore mio, è stato ricoverato a causa di una «grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali».A 46 anni la luce per lui si è spenta all’improvviso e al culmine del successo. Ha accettato di parlare con Repubblica di questo macigno misterioso «per dire pubblicamente che le malattie nervose non devono più essere una vergogna da nascondere e che la risalita comincia accettando chi realmente si è».
Perché ha passato le ultime due settimane in psichiatria?«In primavera e d’estate, senza un apparente perché, sono stato morso dalla depressione. Nelle scorse settimane invece, sceso dal mio rifugio sul Monte Rosa, ero in una fase bella e creativa. Un giorno mi sono accorto che il mio pensiero e il mio linguaggio acceleravano. Gli amici mi hanno fatto notare che facevo cose strane. Il 4 dicembre il medico ha disposto il Tso: trattamento sanitario obbligatorio».
Che cosa era successo?
«Nelle fasi maniacali si può perdere il senso del pudore, o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi. Si sono allarmati tutti: c’era il timore, per me infondato, che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri».
Alla fine ha condiviso queste cure?
«Le ho subìte, non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire».
Si è dato una ragione di questa fragilità?
«Per imparare quasi a scrivere ho impiegato quarant’anni. Dopo il successo con Le otto montagne , una storia urgente e necessaria, mi sono chiesto: “E adesso cosa faccio?”. Non ho trovato una risposta convincente. Forse ho temuto che il mio massimo editoriale, con il Premio Strega, fosse stato toccato: la popolarità è spietata e ha un prezzo significativo».
Pensa che il peso del talento superi le opportunità che offre?
«Io so che mi sono innamorato di una donna e che per lei, dopo dodici anni, ho lasciato la mia compagna. Per non abbandonare chi mi è stata vicina a lungo, ho chiuso anche la nuova relazione. Non si deve mai rinunciare all’amore, che non ritorna».
Perché, con i capelli tinti di rosso, ha scelto di parlare pubblicamente di un tempo per lei tanto vendicativo?
«Trovo insopportabili le persone che raccontano un sacco di balle. Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. Io però sono uno scrittore: per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato».
Come si rivede la luce?
«Nel mio caso ci vuole ancora tempo. Resto un anarchico, ma in ospedale ai medici devi obbedire. Ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta».
Quali progetti ha per i prossimi mesi?
«Tornerò in Nepal: un sopralluogo, prima di girare un documentario nel Mustang. In marzo terrò un corso di scrittura a Marrakech: una settimana, poi mi fermerò un po’ in Marocco. In ospedale ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo, a tratti divertente, sui temi seri di cui stiamo parlando. Nel tempo che rimane dovrò sistemare la casa, ancora vuota, dove mi sono appena trasferito».
Perché ha scelto di vivere buona parte dell’anno in alta quota?
«Mi sono illuso di poterlo fare. L’innamoramento è durato quattro anni: per due ho fatto il cameriere e mi sono sentito parte di una comunità. Poi, dopo che ho cominciato a camminare e a scrivere, l’umanità della montagna mi ha respinto».
Misurandosi con la solitudine pensava di poter fuggire al confronto con gli altri?
«Sì. A Milano il progetto politico degli anarchici, di cui pure frequento ancora due circoli, era finito. Dopo dieci anni avevo lasciato una ragazza da vigliacco. Non ho avuto il coraggio di dirle la verità, le ho fatto credere che me ne andavo per ritirarmi in montagna. Mentire rende soli, ma da soli non si vive».
Montagna e natura l’hanno sempre risanata: come hanno smarrito il loro potere salvifico?
«È successo che i miei occhi hanno mutato sguardo. Già un anno fa misono scoperto depresso. Per me un bosco è tornato solo un bosco, un torrente solo un torrente, perfino un albero non mi ha detto più niente. Nel cuore è sceso il silenzio: la malattia è riuscire a vedere solo il lato apparente della realtà».
Lei non smette di denunciare gli sconvolgimenti climatici che travolgono il pianeta: nel suo primo film, che inizia da una sorgente prosciugata, mostra un congedo o indica la via di una rinascita?
«Mi irrita chi si rifugia nella nostalgia, chi circoscrive la gratitudine verso la natura misurando il ritiro dei ghiacciai. La vita è trasformazione: anche l’irresponsabilità delle azioni umane è parte del cambiamento. Io denuncio e lotto, sapendo però di dover accettare le evoluzioni che per colpa nostra ci segnano».
Si fa abbastanza per assicurare il rispetto della natura?
«Vale la stessa legge dell’istruzione: fortunatamente in Italia la natura è stata dimenticata dalla politica. Gli ettari di foresta sono passati da 8 a 12 milioni, gli animali selvatici si moltiplicano. Temo che l’oblio stia scadendo».
Gli anni in montagna hanno cambiato la sua visione dell’ambientalismo?
«Da ambientalista di Milano sono contrario all’uccisione di lupi e orsi per non porre limiti all’attività umana, da montanaro valdostano capisco rabbia e paura di pastori e malgari. Il numero dei carnivori va contenuto: pascoli e alpeggi, se vengono abbandonati, rischiano di scomparire».
Anche ghiaccio e neve sulle Alpi minacciano di trasformarsi in un ricordo: ha senso investire ancora sull’industria dello sci e degli impianti di risalita sulle piste?
«Sopra quota duemila gli scienziati assicurano che per trent’anni lo sci resterà remunerativo. Più in basso, l’inverno in montagna va invece rapidamente reimmaginato. Serve uno sforzo di fantasia, il recupero di una dimensione naturale che costringa ad aprire gli occhi. Senza neve si può camminare: nei giorni in cui resta ci si può muovere senza seggiovie, come è avvenuto per secoli. Gli inverni diversi che ci aspettano sono un’opportunità da scoprire senza fingere drammi».
Fascismo, razzismo, antisemitismo e autoritarismo avanzano in tutta Europa: la sorprende che gli anticorpi civili e democratici si rivelino tanto vulnerabili?
«Sono arrabbiato e triste, ma non sorpreso. Chi ha lottato per la libertà, per la giustizia e per la democrazia, nel corso di ottant’anni è stato soffocato da un’educata gratitudine di facciata, subito catalogata alla voce memoria.Non sopravvivono quasi più testimoni, ci si affretta a raccontare il presente come passato. La storia in questo modo può essere non solo negata, ma riscritta: ai valori della resistenza viene associato l’odore della muffa, troppa gente non viene più pagata per il suo lavoro. L’Europa oggi fa paura perché ha paura».
Il ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara ha querelato lo scrittore Nicola Lagioia, reo di aver criticato il suo italiano: cosa ne pensa?
«È un calibrato atto di intimidazione, un segnale per tutti. Il governo così dice agli italiani di stare molto attenti a come si esprimono. Mi ricorda Erri De Luca, accusato di istigazione a delinquere e poi assolto. Il ministro Valditara oggi stabilisce che la critica al potere è un lusso riservato ai pochi che possono permettersi di rispondere di un reato in tribunale. La libertà di parlare torna a essere un costo e un ministro parte in vantaggio».
Anche il ministro alla Cultura Alessandro Giuli reagisce alle inchieste giornalistiche minacciando denunce: c’è un filo che lega i titolari dei due ministeri?
«Sì e il filo è l’inadeguatezza alla responsabilità assunta. Per fortuna l’istruzione in Italia è nelle mani degli insegnanti, ridotti a essere i missionari della civiltà. La cultura allo stesso modo è fortunatamente affidata all’intelligenza di studiosi e artisti. La sostanza c’è e resiste: i ministri senza qualità, scaduto il mandato, vengono dimenticati».
L’Italia è ancora un Paese colto?
«Sempre meno. Stiamo tornando ignoranti perché la cultura è stata appaltata alla televisione. L’Italia colta viene rapidamente risucchiata nell’equivoco di un reality».
Perché lei è buddista, nel Paese custode del cattolicesimo cristiano?
«Ho avuto un’educazione ipercattolica e sono stato focolarino. Dieci anni fa ho scelto una filosofia fondata sulla ricerca dell’armonia tra essere umani, animali e vegetali. Il buddhismo non ha mai promosso guerre sante: pratica la pace e insegna che la sofferenza nasce dal desiderio di ciò che non si possiede. Celebro il Natale in famiglia, senza regali, solo per fare felici i miei genitori».
Se pensa a un modo per sentirsi in pace, dopo settimane tanto generose di dolore, cosa le viene in mente?
«Vorrei avere cinque o sei amici sinceri, per contare su una mia famiglia vera. E poi essere libero, con un’agenda sempre vuota per i successivi sei mesi. Riuscire a godermi il pianeta, rifugiandomi negli ultimi luoghi rimasti originari. Alla fine anche per me è vivere la cura per riuscire a vivere».