Corriere della Sera, 19 dicembre 2024
Le guerre dimenticate dal Congo al Sudan
Sono le «guerre dimenticate» dell’anno che si chiude. Infuria quella alimentata dalla corsa al cobalto in Congo; continua la guerra in Sudan che ha sullo sfondo il controllo sui giacimenti d’oro. La nostra indifferenza legittima le accuse dal Grande sud globale, che attribuisce all’Occidente una sensibilità molto selettiva.
All’inverso, Ucraina e Medio Oriente per molti africani sono conflitti «come tanti altri», non esitano a trattarli con lo stesso cinismo che attribuiscono a noi. Gran parte del Sud globale condannò l’aggressione di Putin in Ucraina in modo puramente formale, e rifiuta di applicare sanzioni alla Russia. Sul Medio Oriente: la presa di distanza dal massacro del 7 ottobre 2023 è stata simbolica, seguita da mille attenuanti e giustificazioni, poi dalle accuse di genocidio verso Israele.
Paghiamo la nostra distrazione verso un continente da 1,4 miliardi di abitanti, l’unica parte del mondo che rimane una «fabbrica di giovani», nonché una riserva straordinaria di risorse strategiche. La promessa di occuparci dell’Africa – nelle sue crisi come nelle sue enormi potenzialità – è stata disattesa. Eppure ad alimentare quei conflitti ci sono interessi economici centrali per il nostro futuro. Gli errori occidentali sono un misto di disinformazione, incapacità di sfruttare le malefatte delle potenze antagoniste, sottovalutazione di tutte le notizie positive.
La «guerra per l’oro» in corso in Sudan è un esempio. L’oro è ai massimi, come bene-rifugio antinflazione. Un fiume di ricchezza beneficia i produttori, molti dei quali sono nell’area del Sahel. Un’inchiesta del New York Times denuncia: «Mentre il Sudan brucia e il suo popolo soffre la fame, è in atto una corsa all’oro. L’economia è crollata, il sistema sanitario è al collasso, la capitale è un cumulo di macerie. I combattimenti hanno precipitato 26 milioni di persone nella carestia. Nel frattempo la produzione e il commercio di oro sono ai massimi».
Dietro questa tragedia le responsabilità non sono nostre. La maggiore miniera d’oro è posseduta dagli Emirati arabi uniti. Le autorità sudanesi spendono le royalties comprando armi dalla Cina e dall’Iran. La Russia offre più armi in cambio di accesso navale sul Mar Rosso e diritti di estrazione mineraria.
La «guerra per il cobalto e il coltan» è un altro caso da manuale. Joe Biden è stato criticato perché il suo unico viaggio in Africa è avvenuto quando la sua presidenza è agli sgoccioli: è stato interpretato da molte classi dirigenti locali più come uno sgarbo che un’attenzione. Eppure l’America ha dato il via a un progetto ferroviario di 1.200 chilometri che collegherà Angola, Congo, Zambia: trasporterà minerali rari verso i porti africani sull’Atlantico. Cobalto e coltan vanno nelle batterie dei nostri cellulari e auto elettriche.
Il cardinale Ambongo di Kinshasa, presidente della conferenza episcopale africana, denuncia «le multinazionali che sfruttano le ricchezze minerarie del Congo, generando guerra e violenze». Però la maggioranza delle miniere del Congo – 76% del cobalto mondiale – sono sotto il controllo della Cina. Le multinazionali Usa si sono ritirate dal Congo nel 2020. Pechino ha oberato di debiti gran parte dei Paesi locali (inclusa l’Angola che deve ai cinesi ben 42 miliardi di dollari).
I comportamenti predatori di Cina, Russia e altri non entrano nel discorso pubblico: né in Occidente né tra le classi dirigenti e opinioni pubbliche africane. Invece fa notizia il rigetto del neocolonialismo francese in atto da qualche anno.
Ciad e Senegal si sono aggiunti di recente all’elenco di Paesi dell’Africa francofona che hanno espulso i militari di Parigi (Mali, Niger, Burkina Faso e altri). Gli accordi con la Francia per lottare contro milizie jihadiste vengono stracciati come residui di un passato coloniale. I militari russi subentrano ai francesi, in un remake degli anni Sessanta.
La storia si ripete, anche se quattro generazioni di africani sono vissute dopo la liberazione; nello stesso arco di tempo in Asia alcune ex-colonie d’Occidente sono passate da una miseria «sub-sahariana» a un benessere superiore al nostro.
L’Occidente non sa contrastare le classi dirigenti ed élite africane che riciclano l’anticolonialismo come alibi per nascondere i crimini quotidiani commessi contro i propri popoli.
Molti intellettuali «afro-politani» – la diaspora di successo che ha una carriera cosmopolita tra i Paesi d’origine e New York, Londra, Parigi – sanno che accusare l’Occidente è la scorciatoia sicura per ottenere premi letterari e cinematografici. Hanno imparato il linguaggio antioccidentale nelle nostre università.
Ci sono voci fuori dal coro che meritano più attenzione. L’intellettuale nigeriano Ebenezer Obadare ci invita a non dare per scontata l’avanzata degli imperi autoritari (Cina, Russia, Turchia, Arabia) nella sua Africa. L’ultimo sondaggio Afro-barometro rivela due terzi degli africani hanno una netta preferenza per la democrazia; l’80% respinge il modello dell’«uomo forte».
Al nostro deficit di autostima si accompagna una disattenzione verso le buone notizie. Nel Nordafrica uno degli sviluppi recenti è la forte crescita degli investimenti in energie rinnovabili. L’Algeria nel 2025 moltiplicherà per sette la sua capacità nel solare. Il Marocco è all’avanguardia. In Tunisia la transizione energetica è accompagnata spesso da aziende italiane.
Un’analisi più differenziata e meno ideologica su quanto accade in un continente di 54 nazioni, può evitarci di finire emarginati da chi farà molto peggio di noi. È una condizione per capire le «guerre dimenticate», combattere l’indifferenza, fare il possibile per estinguerne le cause.