Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 19 Giovedì calendario

Prodi: «Non sono lo stregone del centrosinistra»


Scansa l’idea di essere lo stregone che insegnerà al centrosinistra la macumba per battere Giorgia Meloni, ironica in Parlamento con le opposizioni. Si defila anche dal ruolo di burattinaio della fantomatica federazione moderata che dovrebbe prendere corpo. Ma non rinuncia al ruolo di avversario radicale del governo. «Questa destra è più insidiosa di quella guidata da Silvio Berlusconi», scandisce Romano Prodi, ex presidente del Consiglio e della Commissione europea. «Quanto abbiamo ascoltato alla festa di Atreju dice che FdI si rifà a radici estremistiche e verbalmente violente. Sono loro a essersi messi a destra di Berlusconi. Oggi Forza Italia è l’area moderata della coalizione». Una coalizione che però vince, obiettiamo. «Sì, vince per le divisioni del centrosinistra». Prodi ha una gran voglia di rimettere a posto il suo profilo, dopo i fraintendimenti degli ultimi giorni.
Rimane la realtà di una destra che ha trovato un proprio equilibrio, governa e offre stabilità. E di una sinistra nella quale il Pd è il perno, ma circondato dall’ambiguità dei 5 Stelle e da una nebulosa centrista in eterno conflitto: una situazione da opposizione rumorosa ma quasi in letargo, incapace di diventare schieramento di governo. Al punto che si attribuisce a Prodi un ruolo benedicente di qualsiasi leadership: segno che in vent’anni e più da quel versante non sono arrivati né nuovi leader né nuove idee. Lui nega. Di più, ritiene che si tratti di qualcosa di alieno rispetto alle sue convinzioni di sempre. «È una premessa sbagliata. Intorno a me non ruota nulla. Non ho un dialogo sistemico con nessuno da molto tempo. Mi limito a scrivere quello che penso, e continuerò a farlo, questo sì. Ma non c’entra col ruolo che mi si attribuisce. Non sono più determinante».
Non si riconosce nemmeno nella narrativa che lo vuole promotore della possibile candidatura di Ernesto Maria Ruffini, ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, come federatore di un centro cattolico. «Ruffini lo conosco e lo stimo. Siamo amici da tempo – spiega Prodi —. E anni fa feci anche la prefazione a un suo libro. Ma se dovessi lanciare tutti quelli a cui ho fatto prefazioni, la lista formerebbe da sola un partito. Quanto all’idea di un partito cattolico di cui sarei il mallevadore o il regista, non appartiene alla mia cultura politica. Sono cattolico ma la costruzione di un partito cattolico a mio avviso è impossibile, e direi velleitaria. La mia ambizione è sempre stata quella di unire riformismi diversi: cattolico, liberale, socialista. Dunque, l’opposto di quello che mi è stato attribuito. Ci riuscii ai miei tempi ma oggi non è mio compito, spetta ad altri. Non sono il burattinaio di nulla. Faccio solo notare che nelle democrazie europee non esiste il caso che un solo partito abbia la maggioranza. Siamo in una democrazia frammentata, perfino in Germania».
Di nuovo, rispunta il fantasma di uno schieramento composto da opposizioni eterogenee. Con la spregiudicatezza del M5S, a cominciare dalla politica estera, che rende difficile ipotizzare qualunque progetto basato sulla coesione delle forze chiamate a farne parte. Prodi condivide l’analisi solo parzialmente, quando si parla di post grillini. «Per ora tra Elly Schlein e Giuseppe Conte è più un balletto personale che un confronto tra politiche alternative», osserva. «E certamente, se continua così non ci sarà nessuna possibilità di accordo. La valutazione, però, va fatta in prospettiva. E poi, conto che la guerra in Ucraina finisca presto».
Tuttavia, l’aggressione russa non si ferma. E il governo ha scelto una linea atlantista che rende credibile Meloni e l’Italia. Prodi ha sostenuto che la premier è apprezzata «perché ubbidisce»: parole riduttive e perfino provocatorie, che hanno provocato una reazione risentita della premier.
Eppure, su questo punto l’ex presidente della Commissione e fondatore dell’Ulivo non arretra di un millimetro. Di più: rincara la dose. «Ritengo l’attacco personale che Meloni mi ha riservato un segno di grande debolezza e insicurezza», sostiene. «Quanto ho detto è un semplice indizio politico. Possiamo fare anche l’esame analitico, se si vuole. Ribadisco: Meloni è obbediente. Lo è stata prima con Joe Biden e poi con Donald Trump. Questi sono fatti. È chiaro che essendo ubbidiente è apprezzata». Parole ruvide, che sembrano pronunciate per toccare quello che Prodi considera un punto debole.
Eppure, anche in Europa la premier ha acquistato credito pur avendo «disubbidito» all’inizio sulla Commissione di Ursula von der Leyen. «È vero, ma poi si è adattata. Ed è stata ubbidiente prima con Orbán, poi con von der Leyen».
Nella sua analisi, quello che viene percepito come un fallo di reazione di Meloni ai suoi attacchi «forse nasce dal timore che si crei una coalizione riformista in grado di costruire un’alternativa credibile a questa destra. Il Pd dovrebbe andare avanti su questa strada: ha due anni di tempo prima che si entri in una fase elettorale». Prodi non sembra disposto a concedere all’esecutivo nemmeno il merito della stabilità, merce rara tra i governi europei di oggi? «Il governo Meloni è stabile, sì. Ma si è stabilizzato al prezzo dell’immobilismo. Stabilità e unità sono state pagate con una legge finanziaria di piccole concessioni, e con l’assenza totale di riforme. E questo perché nella coalizione esistono tensioni molto forti. Meloni finora le ha gestite con abilità. Non escluderei, tuttavia, che se dovessero aggravarsi possano portare a tentazioni di elezioni anticipate».