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 2024  dicembre 18 Mercoledì calendario

In guerra a volte si legge di più


Un gruppo di infermiere immerse nella lettura in una struttura costruita nel Surrey in Gran Bretagna per curare il personale degli ospedali danneggiati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale (Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
Un gruppo di infermiere immerse nella lettura in una struttura costruita nel Surrey in Gran Bretagna per curare il personale degli ospedali danneggiati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale (Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
Che fine fanno i libri in tempo di guerra? Una brutta fine, spesso. La biblioteca comunale di Gaza è stata distrutta dalle bombe israeliane, più di un anno fa. A Kharkiv, a maggio, un missile russo ha raso al suolo una delle più grandi case editrici ucraine. Quando c’è una guerra di solito i libri si contano tra le vittime. Non sempre: «In tempo di guerra i libri possono essere una guida, una fonte di ispirazione spirituale o di distrazione, un rifugio», scrive lo storico Andrew Pettegree nel saggio del 2024 The Book at War: Libraries and Readers in an Age of Conflict. Biblioteche, librerie e lettori in epoche di conflitti possono in un qualche modo resistere. Il Natale del 1939, per esempio, a pochi mesi dall’inizio della Seconda guerra mondiale, fu un periodo «eccellente» per le librerie inglesi. Pettegree riporta la testimonianza di un libraio che descriveva così la sua vetrina:
«Libri su navi, aeroplani e su tutte le armi usate in guerra; pamphlet, memorandum e Atti del parlamento su qualsiasi argomento, dal giardinaggio alle maschere antigas; manuali di addestramento all’uso delle armi, sui doveri di un soldato e un centinaio di altri argomenti».
I lettori reagivano alla guerra cercando titoli di ogni genere, le case editrici rispondevano con libri pensati per una larga diffusione, carta di scarsa qualità e prezzi contenuti, tascabili che avevano cominciato a diffondersi prima che la guerra scoppiasse. «Questo ha portato un pubblico nuovo in libreria. Centinaia di persone ora entrano e chiedono volumi che prima non avrebbero potuto permettersi e non avrebbero mai osato chiedere», scriveva il libraio.

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– Leggi anche: Da dove vengono i libri tascabili
Tra le collane nate in quel periodo, per esempio, c’era la Pelican Books, ideata dalla casa editrice Penguin per pubblicare saggi divulgativi. Tra i titoli di maggiore successo nei primi mesi della Seconda guerra mondiale c’era il libro scritto da una filosofa oggi dimenticata, ma che bisognerebbe ricordare: Susan Stebbing. L’autrice, che allo scoppio della guerra aveva già 55 anni, aveva avuto un suo momento di notorietà qualche anno prima, nel 1933, quando era finita sulle prime pagine dei giornali come la prima donna ad aver ottenuto una cattedra di filosofia nel Regno Unito, al Bedford College. Sei anni dopo si era candidata per la cattedra lasciata libera a Cambridge da G. E. Moore – dopo Bertrand Russell, il più importante filosofo inglese del suo tempo, autore dei Principia ethica. Non l’aveva ottenuta, invece aveva ricevuto una lettera da uno dei più illustri filosofi di Cambridge, Gilbert Ryle: «Tutti pensano che tu sia la persona adatta a sostituire Moore, se non fosse per il fatto che sei una donna». (Cambridge è stata l’ultima università inglese a permettere alle donne di laurearsi, la prima laurea fu assegnata a una donna solo nel 1948).
Il libro di Susan Stebbing che ottantacinque anni fa era in tutte le librerie inglesi era quello che oggi definiremmo un manuale di pensiero critico: Thinking to Some Purpose (Pensare con qualche scopo). All’uscita, nel 1939, non aveva avuto molte recensioni, le riviste accademiche praticamente lo ignorarono. Per gli specialisti il testo era inclassificabile, superava i tradizionali confini tra discipline. Divenne comunque in poco tempo un bestseller. Sembrò subito una lettura particolarmente adatta ad affrontare quello che stava accadendo. L’idea dell’editore era che il libro potesse passare di mano in mano come un bene di prima necessità, uno strumento per tutti, un dispositivo di primo soccorso. Nelle ultime pagine di una successiva edizione del 1942 si leggeva: «Una volta letto questo libro lasciatelo nel più vicino ufficio postale, così anche altri uomini e donne potranno leggerlo».
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Anche nelle intenzioni dell’autrice Thinking to Some Purpose doveva offrire una soluzione concreta a un problema specifico e urgente: le minacce alla democrazia in Europa. Qual era la soluzione proposta? «Istruzioni per pensare in modo chiaro». Stebbing era consapevole della gravità della situazione internazionale: lei stessa aveva fornito direttamente assistenza ai rifugiati provenienti dalla Germania e dai territori occupati dai nazisti. E aveva osservato gli effetti della propaganda già nel corso della Prima guerra mondiale e negli anni successivi. Scriveva negli anni Venti:
«La grande diffusione di informazioni non è stata accompagnata dallo sviluppo di un atteggiamento critico senza il quale il possesso di informazioni è inutile o pericoloso. La disillusione prodotta dalla Guerra è stata seguita da un aumento della fede nei programmi presentati dai politici».
La situazione non era migliorata con la guerra civile spagnola: «La Guerra di Spagna ha prodotto più bugie di qualsiasi altro evento seguito alla guerra del 14-18», scriveva nel 1937 George Orwell che, alcuni anni dopo, nel romanzo 1984 e nel saggio Politics and the English Language, si sarebbe dedicato proprio al rapporto tra democrazia e chiarezza del linguaggio e del pensiero. Stebbing condivideva la preoccupazione di Orwell, anzi notava come la rappresentazione fuorviante sui mezzi di informazione britannici della Guerra civile spagnola fosse influenzata dalla posizione del governo. Non si trattava solo di semplici falsità: la rappresentazione parziale delle parti in conflitto, la scelta delle parole per descriverlo, finiva con l’influenzare profondamente l’orientamento dei lettori. Per questo nel libro del 1939 Stebbing si diceva convinta che fosse necessario e urgente per un popolo democratico «pensare chiaramente», cioè senza le distorsioni dovute a pregiudizi inconsci e a ignoranza inconsapevole. Quelli che considerava «errori nel pensiero» erano dovuti in parte a mancanze in un certo modo superabili se ne individuiamo le cause. «Lo scopo di questo libro è fare un piccolo sforzo in questa direzione», scriveva Stebbing.
Per raggiungere il suo obiettivo la filosofa partiva dalla discussione sul modo in cui il linguaggio viene manipolato al fine di provocare forti risposte emotive, spesso irrazionali, nel pubblico. Secondo la filosofa i discorsi emotivi funzionano solo se glielo permettiamo: «Spesso siamo troppo pigri, troppo impegnati, troppo ignoranti per fermarci a pensare che cosa vuol dire accettare un discorso di questo tipo», scrive. L’idea è che se iniziassimo a evitare di reagire emotivamente e a usare la logica allora anche i politici sarebbero obbligati a fornire le basi delle loro argomentazioni. Possiamo avere i nostri dubbi su questo passaggio, ma è difficile non concordare con Stebbing quando scrive:
«Io non voglio accettare responsabilità politiche. Purtroppo la cosa è inevitabile. Anche per voi. Abbiamo due alternative: o decidiamo liberamente di sostenere o contrastare una certa misura politica, o accettiamo tacitamente le decisioni prese da chi ha il potere. Per decidere liberamente credo sia necessario sapere quali sono gli elementi rilevanti per quella decisione».
Per questo Stebbing era convinta della necessità di dotare l’elettorato di strumenti per affrontare quei tempi difficili. I cittadini avrebbero dovuto essere in grado di «pensare in modo rilevante», vale a dire, pensare con uno scopo. Per Stebbing l’altro lato, triste ma non sorprendente, della questione era la convinzione tipica di molti politici secondo cui i cittadini non sono in grado di pensare. Spesso ci si trova davanti a oratori senza scrupoli, spesso il pubblico è pigro e acritico. In altre parole: «C’è la nostra stupidità e chi trae vantaggio da quella stupidità».
Il libro è pieno di esempi: analisi del linguaggio usato da politici, pubblicitari, religiosi, giornalisti. Stebbing si spinge al di là dei casi, spesso troppo astratti, presi in esame dai colleghi filosofi del linguaggio ordinario. Il più citato e criticato nel libro è il conservatore Stanley Baldwin, che fu primo ministro inglese più volte fra le due guerre. Il suo metodo si applica a discorsi presi dalla comunicazione pubblica di tutti i giorni. Un approccio rivoluzionario per il suo tempo: anticipa i metodi della sociolinguistica e della pragmatica e fa pensare a quello che in Italia Umberto Eco avrebbe fatto a partire dagli anni Sessanta. Stebbing era convinta che gli accademici avessero il dovere di contribuire alla discussione delle questioni politiche e sociali fondamentali.
Fu la presidente del movimento degli Umanisti, si riconosceva nella corrente, nata con l’Illuminismo, dei liberi pensatori, intellettuali che rifiutavano l’autorità religiosa e i dogmi accademici alla luce dei progressi della scienza. Già negli anni Trenta aveva cercato di portare la filosofia a un pubblico più ampio, non solo di specialisti, mossa dall’idea che la logica non fosse un sistema chiuso e isolato, ma uno strumento che poteva essere applicato a problemi e situazioni della vita di tutti i giorni. In un saggio del 1937, Philosophy and the physicists, Susan Stebbing aveva già criticato il linguaggio usato dagli scienziati per divulgare le proprie teorie e raggiungere un grande pubblico, che era impreciso e cadeva nell’impressionismo se non nel sensazionalismo, pur di non annoiare.
La filosofia per Stebbing non è mai un’attività fine a sé stessa e non è importante di per sé. Pensare è sempre pensare con uno scopo. Vale la pena pensare solo se il pensiero si applica a un problema particolare. Se i filosofi vogliono avere un ruolo nel dibattito pubblico dovranno impegnarsi a insegnare al pubblico come si pensa. Bisognava fare cose e risolvere problemi reali, non solo pensarci: «C’è il rischio di lasciarsi andare a un accademico distacco dalla vita», scriveva.
Per questo Thinking to Some Purpose è anche un invito ai lettori ad allenare le proprie capacità critiche, rendendo esplicite le premesse implicite di argomentazioni opache. La logica, per Stebbing, non è in contrasto con il senso comune, perché la capacità di argomentazione è innata e comune a tutti, ma bisogna fare uno sforzo per imparare come usarla. Dovremmo seguire tutti la lezione di David Hume: «L’uomo saggio proporziona la sua credenza all’evidenza». Spesso però le cose non vanno così. Non siamo sempre saggi. Alle volte abbiamo credenze che non sono supportate da evidenza sufficiente, crediamo cose senza metterle in discussione. Stebbing fa qualche esempio:
«Un capitalista crede che gli interessi della sua classe siano più importanti degli interessi del proprio paese, un patriota crede senza dubbi che la propria patria sia superiore a qualsiasi altro paese, un razzista sarà convinto della superiorità dei bianchi».
Stebbing lo chiama «pensiero in scatola». È come la carne in scatola: un prodotto confezionato sottovuoto che possiamo trovare già pronto – all’epoca si presentava nelle scatolette con il marchio SPAM. Il pensiero in scatola è fatto con idee ultrasemplificate, slogan, banalizzazioni. Alle volte gli slogan e le semplificazioni possono essere utili, ma dobbiamo ricordarci che quando li usiamo perdiamo le sfumature e la complessità dell’idea originale. Scrive Stebbing:
«La carne in scatola conviene. Persino il gusto non è male, contiene anche dei nutrienti. Ma il suo valore nutritivo non è di sicuro lo stesso della carne fresca da cui è ottenuta in origine. Allo stesso modo un pensiero in scatola è molto comodo: può essere comunicato rapidamente, ha spesso un’immediata efficacia, attrae subito l’attenzione di chi ascolta».
Il pensiero in scatola – il peggiore è quello fatto di parole ripetute – prende un’idea o una teoria che in origine ha un alto valore nutritivo e la impacchetta perché sia facile da vendere, anche se in questo modo diventa difficile ritrovarne le qualità originali.
Può darsi che la sua avversità al “pensiero in scatola” derivasse dalla sua storia personale: era la più piccola dei sei figli di un commerciante di pesce in scatola. Sin dalla nascita, nel 1885, sembrò cagionevole e non ci si aspettava vivesse a lungo (era affetta dalla malattia di Ménière, una patologia dell’orecchio interno che causa vertigini, nausea, sordità fluttuante e acufeni – malattia compresa e curata solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso, prima non si poteva fare altro che mettersi a letto). La sua salute, insomma, condizionò le sue scelte: avrebbe voluto fare studi scientifici, ma i genitori pensarono sarebbe stato troppo faticoso e quindi ripiegò sulla storia poi sulla filosofia, in cui si laureò nel 1912. Dopo la Prima guerra mondiale cominciò a girare il paese facendo conferenze per sostenere la Società delle Nazioni e promuovere la pace e il disarmo multilaterale. Un impegno faticoso per lei. Continuò a fare filosofia fino agli ultimi giorni della sua vita; nel 1941, due anni dopo l’uscita di Thinking to Some Purpose, le fu diagnosticato un cancro e nel 1943, poco prima di morire, pubblicò un manuale di logica elementare destinato a studenti che si avvicinavano alla disciplina senza avere la guida di un docente (pensava in particolare ai soldati).
L’obiettivo era sempre contrastare certi nostri atteggiamenti che ci rendono facili prede della propaganda: ostentiamo sicurezza laddove dovremmo esitare, cerchiamo di definire le cose quando invece sarebbe meglio lasciarle indefinite, siamo vaghi quando invece dovremmo esigere precisione. “Propaganda” non è sempre stata una brutta parola, ricorda Stebbing, richiamandone l’etimologia. Era diventata una cosa preoccupante in quegli anni, proprio dopo la Prima guerra mondiale, quando i governi avevano iniziato a diffondere informazioni con il doppio obiettivo di unire il popolo nel sostegno alle proprie politiche e contemporaneamente spingere gli altri paesi a schierarsi a loro favore.
Un secolo dopo con la propaganda (di guerra e no) continuiamo a fare i conti. Secondo un recente sondaggio Ipsos il 56% degli statunitensi prima delle elezioni di novembre pensava che le notizie false o propagandistiche potessero essere un grosso problema per la democrazia. E figuriamoci dopo. La comunità scientifica discute la questione, c’è disaccordo su quali possano essere le soluzioni, sempre che ci siano.
E nella propaganda i libri hanno sempre fatto la loro parte. In The Book at War Pettegree ricorda che Hitler, Stalin e Mao furono autori di best seller, che Churchill vinse il premio Nobel per la Letteratura e Franklin Delano Roosevelt coniò lo slogan: «Books are weapons in the war of ideas». Nel programma di Trump c’è lo smantellamento del ministero dell’Istruzione; nel libro dell’ultraconservatore Kevin Roberts, stratega del discusso programma di governo Project 2025, ci si augura un «lento incendio» per varie istituzioni democratiche tra cui «tutte le università della Ivy League» (non si specifica esplicitamente se le biblioteche saranno comprese nel rogo); in testa alle classifiche dei titoli più venduti negli Stati Uniti ci sono le autobiografie di Melania Trump e di J.D. Vance. Tutti testi che Stebbing ci inviterebbe a leggere con attenzione, ricordandoci che non conta solo il significato letterale di ciò che viene detto, ma anche le scelte linguistiche adottate per introdurre premesse ideologiche spesso non dichiarate che possono rendere opaca un’argomentazione.
In Thinking to Some Purpose Stebbing si occupava non solo delle scelte linguistiche ma anche del modo in cui le argomentazioni sono costruite. Le due cose sono connesse: la scelta di termini emotivamente carichi può nascondere, più o meno consapevolmente, ragionamenti fallaci. Ottantacinque anni dopo assistiamo al trionfo di una retorica che è stata definita «estrema, provocatoria, pericolosa», possiamo ancora trovare conforto in un manuale come questo e sperare di difenderci con la logica? Alla fine del libro Stebbing non propone soluzioni semplici o consolatorie, si augura piuttosto «un atteggiamento di ricerca scettica», anche nei confronti delle sue stesse parole:
«C’è la possibilità che le mie convinzioni siano errate (anche se io sono convinta del contrario) e che le mie ragioni per sostenerle siano insufficienti. Se sia o no così sta a ogni lettore deciderlo».