Corriere della Sera, 18 dicembre 2024
Intervista a Claudio Martelli
C laudio Martelli ha pubblicato, per la Nave di Teseo, un libro dal titolo «Il merito, il bisogno e il grande tumulto». La base è l’importante discorso, per molti versi innovativo, che tenne alla conferenza programmatica di Rimini del 1982. Che cosa ha ancora di attuale quel testo?
«Rimane l’idea fondamentale che una posizione democratica, io dico anche socialista, non può non fondarsi su quei due pilastri, due coordinate del pensiero e dell’azione in una società evoluta come è quella che abitiamo. Si fa riferimento alla natura umana: tutti abbiamo bisogni e, più o meno, tutti abbiamo anche dei meriti, delle capacità. Quando io li ho pensati, questi due termini, erano anche ricchi di un contenuto positivo, costruttivo, due idee forza di sviluppo e equità. E, nel tempo, per me anche, due guide, due criteri per giudicare le politiche pubbliche. Hai soddisfatto i bisogni? Hai premiato i meriti?».
Fu anche un tentativo di andare oltre le dispute puramente ideologiche...
«Non sopportavo il dibattito ideologico, quello degli ismi, che non finiva mai, mai, mai. Cercavo qualcosa di solido per rigenerare le idee del riformismo e alla fine l’ho trovato nella natura umana. Il bisogno è la cosa che per prima ci identifica: nasciamo dentro la madre, poi quando ne usciamo abbiamo ancora più bisogno di essere allattati e accuditi. Poi i bisogni evolvono, si arricchiscono, mutano. Abbiamo fatto tanta strada ma tornano nuove forme di povertà e di mortificazione del merito».
Partire dal merito e dal bisogno reclamava un’idea di estensione del consenso attorno alla sinistra?
«Sì, che comportava in qualche modo una rifondazione. Restare fermi nel classismo impedisce di rappresentare l’intera società, specialmente quando la classe operaia si sta contraendo, riducendosi di numero e di peso. Io non ho mai detto che scompariva, però certamente non era più la classe universale o la classe generale. Il bisogno non si identifica con una classe, è un criterio. Negli anni Ottanta si afferma un nuovo individualismo, è un tempo segnato dall’esaurimento della socialdemocrazia e dello stato sociale, perché erano diventati troppo costosi. Il sistema di protezione sociale universale, se universale vuol dire che anche i benestanti e persino ricchi beneficiano di quei servizi, finisce con l’essere insostenibile e iniquo. I Democratici in America e i socialdemocratici e laburisti in Europa sono andati a sbattere contro i limiti fiscali e monetari, gli Stati si sono indebitati e il gravame degli interessi, con i suoi costi enormi, ha reso impossibile investire nell’innovazione, nel cambiamento. Nasce da questa stagnazione la rivolta delle destre di allora, la Thatcher e Reagan, la deregulation e lo Stato minimo».
Che differenza c’è tra quelle destre e queste destre?
«Il ciclo cominciato negli anni Ottanta non è più finito, ci sono stati dei tentativi di correzione, li abbiamo fatti anche noi, li hanno fatti Blair, Schroeder, però non hanno corretto curando i bisogni, hanno corretto assorbendo la lezione liberista fino in fondo. E si è trascurata troppo la parte povera della popolazione: sia la povertà assoluta, sia il lavoro povero. Sono 30 anni di salari bloccati, e di inflazione che si mangia il potere d’acquisto. Sono le tipiche situazioni in cui prosperano le idee più populiste e demagogiche».
Tavares esce con una liquidazione da 100 milioni e i 79 dipendenti della Trasnova non hanno da pagare il mutuo.
«Orribile: spavento e rabbia, suscita una grande rabbia, però non vedo una politica capace di raddrizzare il bastone storto… La rivolta sociale, dice Landini. Allora cominci a fare una rivolta determinata, quella contro Stellantis».
Il merito non ha bisogno della eguaglianza delle opportunità?
«Io non credo che tutto si possa risolvere dentro i confini del liberalismo, non lo credo né in termini di fatto né in principio. Quegli argini vanno rotti, non per approdare all’opposto, ma per ripensare il rapporto tra Stato e mercato nella nuova società».
Lo Stato non è un demone...
«No, assolutamente no, e poi dipende, non ha più senso la contrapposizione Stato-mercato, perché tutti i Paesi, tutte le nazioni, grandi o piccole, vivono integrando i due elementi, utilizzando gli uni e gli altri come il freno e l’acceleratore. Anche da noi, se guardi le grandi imprese che sono rimaste, sono tutte quelle statali: Eni, Enel, Ferrovie, Leonardo, Poste. Sono sorti pochi giganti privati come Del Vecchio e molte medie imprese che fanno il nostro export. Il resto svenduto negli anni Novanta e finito male».
Torniamo al discorso sulla fine delle ideologie.
«C’è stata una lotta molto dura tra ideologie irrigidite e obsolete come il comunismo o infragilite come il liberalismo e il socialismo. Infine è riemersa quella primigenia, il nazionalismo. Vorrei che non dimenticassimo la distinzione tra patriottismo e nazionalismo, il nazionalismo è l’avversione agli altri, è identificarti attraverso l’odio per chi non è come te, il patriottismo invece è l’amore per la tua casa, e questo è sacrosanto, è giusto che ci sia, e la sinistra dovrebbe non lasciare il tema della nazione alla destra».
Cosa pensi di questo governo?
«Secondo me si è un po’ troppo corrivi con la Meloni. Io non vedo tutti questi successi, neanche di politica internazionale. Certo è brava nelle relazioni personali, su questo non c’è ombra di dubbio, ma se poi si guarda al fondo delle questioni, quale è l’ispirazione che la guida? La nazione? Io l’ho sentita comiziare alla Camera, tre anni fa, attaccando la sinistra e dicendo che doveva fare autocritica per aver trascurato la nazione, che è il perno di tutto. Sarà anche vero, però la nazione in Italia l’ha inventata la sinistra di Mazzini e Garibaldi, non la destra. Cavour per quei tempi era un uomo di sinistra, un liberale e il liberalismo all’epoca era la cosa più avanzata... Poi l’ha reinventata con la Resistenza e la Costituzione. La destra, nella storia del Novecento, che cosa ha fatto per questo Paese? L’Italietta liberale disprezzata da Mussolini era anche geograficamente molto più grande di quella che lui ci ha lasciato, comprendeva l’Istria, il Dodecanneso. La destra ha distrutto questo Paese, l’ha stordito sotto un’ondata di retorica folle e di violenza, l’ha precipitato nella guerra, lo ha fatto occupare dagli stranieri».
Il problema della sicurezza e del suo rapporto con l’immigrazione, è un tema esclusivo della destra?
«L’immigrazione può essere una risorsa, ma è sempre un problema, difficilissimo da regolare, perché suscita forti emozioni, reazioni. Ma oggi chi la fa l’integrazione? Nessuno. Presentando la mia legge, che ha generato due milioni e mezzo di nuovi cittadini, io dicevo che bisognerebbe pensare all’integrazione come una forma di adozione. Arriva uno straniero, chi se ne occupa? Per il lavoro l’impresa, se è un bambino sarà la scuola o l’asilo, oppure la famiglia se è una colf, oppure la chiesa, il sindacato. Devono venire per chiamata, per adozione. La destra ha cancellato sia il principio di adozione sia il principio dello sponsor, dicendo che era un trucco per farne venire di più. No, era un’assunzione di responsabilità. Colgo l’occasione per dire agli amici del Pd che lo Ius soli già esiste, oggi è fissato a dieci anni di residenza, si può ridurre quel tempo. Ho visto che c’è chi propone che dopo 10 anni di scuola i ragazzi diventino italiani. Ma è già così, 10 anni, però non deve valere soltanto per i ragazzi, anche per i genitori. Non si capisce perché il bambino può diventare italiano e il papà e la mamma che l’hanno portato qui no, con l’effetto di separare legalmente le famiglie. Ma perché?».
Il socialismo è finito nel 1900?
«All’origine della nostra vita, della nostra storia, c’è la società. La signora Thatcher diceva: “Io non vedo la società, vedo solo gli individui”. Ti sbagli cara, vedi male. La famiglia, come del resto dice anche la nostra Costituzione, è la società naturale. Natura e società esistono prima degli individui. Poi la mano pubblica agisce per diminuire, o incrementare, le differenze di partenza. Qual è lo scopo del socialismo? Secondo me è quello che diceva Pietro Nenni: “Portare avanti chi resta indietro”. Naturalmente non si può fare se la società deperisce, si impoverisce e quindi bisogna incrementare e premiare quanti sanno farla progredire. Io ero terrorizzato dal rischio che le persone di capacità e di merito venissero attratte e si sottomettessero ai capitalisti, volevo tenerle invece da questa parte della storia. E volevo che risarcire il bisogno e riconoscere i meriti fosse l’ossessione della sinistra. Se questa parola ha ancora un valore».