Robinson, 15 dicembre 2024
Nella Austin di Borges
La città di Austin è un’oasi democratica in mezzo al deserto repubblicano che è il Texas. Paradossalmente è altresì la capitale di una nuova Silicon Valley (Silicon Hills, la chiamano) creata per via di benefici fiscali promossi dai successivi governi statali (tutti conservatori) che hanno attratto mega aziende informatiche dalla California, lo stato con le tasse più alte in America. Negli anni Novanta, prima del boom cibernetico, finanziario e immobiliare, la città era nota come mecca della cultura indie. Le sue strade e suoi bar erano famosi per essere l’habitat naturale di artisti avanguardisti come Daniel Johnston e di musicisti fuoriclasse come Lucinda Williams e Willie Nelson. Questa energia creativa ispirò il motto Keep Austin Weird. Oggi, ahimè, Austin non è più weird, è soltanto cara. Le vecchie bettole (idive bars) si trasformano in ristoranti stellati e la bohème fugge incapace di pagare gli affitti stratosferici, il passato bizzarro è diventato uno slogan per attirare il turismo. Perfino South By Southwest (Sxsw), il famoso festival di musica, cinema e tecnologia, si è ridotto negli ultimi anni a un fastoso mercato di gadget e dolcetti. Eppure, nei numerosi musei e nelle ricchissime biblioteche della città, si conserva ancora una travolgente varietà di oggetti che testimoniano il passato ricco e strano di Austin, ma non solo. Tra questi, infatti, si trovano alcuni dei più grandi tesori della letteratura latinoamericana del Novecento, come l’archivio completo di Gabriel García Márquez e una collezione di manoscritti inediti di Jorge Luis Borges.
Austin è uno dei tre posti al mondo che Borges chiamò casa (gli altri due sono Buenos Aires e Ginevra). L’amore di Borges per l’America era principalmente, come tutto in Borges, un amore letterario. A Harvard, nei primi anni Settanta, uno studente che gli faceva un’intervista per una rivista universitaria chiese a Borges che cosa pensasse del ruolo degli Stati Uniti in Vietnam e l’argentino rispose: «Un Paese che ha dato al mondo Melville, Whitman e Poe non può fare niente di sbagliato». Nondimeno in un’altra conversazione con un giornalista argentino, poco dopo essere tornato dal suo primo viaggio in America, lo scrittore si lamentò del fatto che gli americani ignorassero le due virtù più indicative della civiltà: il dialogo e la cucina. Un amore-odio, quindi, il marchio di ogni rapporto appassionato.
Tra gli anni Sessanta e la sua morte, Borges visitò gli Stati Uniti in diverse occasioni. Nessuna città l’attirò tanto quanto la capitale texana, dove andò per la prima volta nel settembre del 1961, invitato dall’Università del Texas per tenere un corso di letteratura argentina. Aveva vinto poco tempo prima il premio Formentor (ex aequo con Samuel Beckett) e lo accompagnava sua madre. Non appena arrivato, ci fu il colpo di fulmine. «Tutte le strade portano a Austin», avrebbe detto poi a un amico. E poi aggiunse: «È anche vero che tutte le strade portano al ritorno da Austin». Vi rimase fino al febbraio del 1962 e negli anni successivi, fino a poco prima della sua morte, sarebbe tornato in quattro occasioni. La corruzione, uno dei racconti che formano Il libro di sabbia (1975), è la storia di un piccolo dramma accademico che scatta lungo i corridoi dell’Università di Texas. Nell’Altra poesia dei doni, uno dei suoi poemi preferiti, ringrazia «il divino labirinto delle cause e degli effetti (…) per il mattino nel Texas». Ancora ne L’altro, lo stesso (1964), forse la sua più importante raccolta poetica, troviamo Texas, dove Borges paragona gli spazi infiniti dell’ovest americano con quelli della pampa argentina: «Anche qui. Anche qui come nell’altro / tuo estremo continente, l’infinito / campo in qui muore solitario il grido (…) Anche qui ferve questa sconosciuta / e ansiosa, breve cosa che è la vita».
Un foglio con il poema scritto di suo pugno dall’autore è tra i documenti custoditi nella famosa cartella “Borges” all’Harry Ransom Center dell’Università di Texas. L’Harry Ransom Center, fondato nel 1957 con il nome di Humanities Research Center, possiede oltre 36 milioni di manoscritti, un milione di libri rari e una varietà di gemme letterarie, tra cui una Bibbia di Gutenberg, tre copie del First Folio di Shakespeare, i tarocchi di Aleister Crowley, lo scrittoio di Edgar Allan Poe e collezioni di manoscritti di autori come James Joyce, Lewis Carroll, Norman Mailer, García Márquez, Doris Lessing e molti altri. La cartella “Borges” è uno degli articoli più pregiati dell’intera collezione. Per averla a disposizione, consultare i documenti a piacere, fotografare e prendere appunti, non ci sono condizioni bizantine, né richieste nepotistiche obsolete come “lettere di raccomandazione”. Basta soltanto portare un documento e riempire un formulario. È stato così che mi sono trovato seduto davanti alla famosa cartella a sfogliare testi inediti, taccuini di note, lettere e persino una cartolina; tutto di mano borgesiana, una mano quasi infantile, minuscola come una zampa di mosca.
Ecco che cosa vi ho trovato: i quattro taccuini, di difficilissima lettura, contengono annotazioni su Carlyle e Emerson, letteratura islandese medievale, astrologia, Giovanni Scoto Eriugena, gli gnostici e i mistici dell’Islam, Leopoldo Lugones, le rune e il Beowulf. Una breve nota indirizzata a Ulyses Petit de Murat, del 1929, testimonia la passione borgesiana per la settima arte. Era l’alba del cinema sonoro e i primi talkies cominciavano ad arrivare a Buenos Aires. Scrive quindi Borges al suo caro amico: «Per stasera, o per domani, aspetto un altro regalo importante: sentire dal vivo l’inaudita voce di George Bancroft e le sue risate violente in The Wolf of Wall Street».
In una cartolina datata aprile del 1946, dietro una foto del porto di Buenos Aires, Borges invece annuncia a Cecilia Ingenieros che è diventato direttore della rivista Los anales de Buenos Aires e le chiede, in modo non molto convincente, un articolo («di natura non politica») sugli Stati Uniti. A Cecilia Ingenieros peraltro è stato dedicato il capolavoro Emma Zunz, la cui prima stesura è forse uno dei documenti più pregiati contenuti nella cartella. Non meno pregevole è la lettera a Ricardo Güiraldes datata luglio 1925. In essa un Borges dostoevskiano scrive: «C’è nel mondo un santissimo diritto, il diritto che abbiamo di fallire, di andare da soli e di poter soffrire».
Infine – e qui viene il bello – la cartella contiene il manoscritto intitolato La biblioteca di Robinson: tre piccoli fogli di un testo inedito scritto nei primi anni Trenta, per cui i texani pagarono all’asta 45 mila euro. Alla classica domanda «Quali tre libri ti porteresti su un’isola deserta?», Borges risponde nello stile ancora un po’ ampolloso, tipico dei suoi scritti giovanili, con una riflessione ludica che prefigura già il tono ironico del suo primo capolavoro, Storia universale dell’infamia (1935). La conclusione non può essere più borgesiana: un libro di matematica, un libro di metafisica e un libro di storia «sufficientemente remota».
La cosa più importante, avverte Borges a eventuali naufraghi, è di evitare a ogni costo di portarsi dietro un romanzo. I romanzi non fanno altro che richiamare ricordi dolorosi perché sono fatti di passioni umane. Chissà se in quest’avvertenza si nasconde la vera ragione per cui uno dei più grandi maestri della prosa novecentesca evitò sistematicamente il genere più elevato del nostro tempo.
La scrittrice argentina Victoria Ocampo, sua amica, gli rimproverava di non averci dato un grande capolavoro e diceva: «Borges non è stato all’altezza del suo genio». Eppure è proprio in questa omissione che ci si affaccia al grande mistero di Borges, un autore che senza averci lasciato né un romanzo né un poema epico, senza nemmeno aver rivoluzionato nessun genere letterario in particolare, ha eseguito trasformazioni irreversibili nella nostra comprensione della letteratura, della narrativa, dell’autorialità, della creazione e della tradizione letteraria e che ha addirittura creato dei veri e propri miti moderni, come la tigre metafisica, il labirinto universale, la biblioteca paradiso, la terra incognita di Tlön e l’Aleph, angolo fantastico e atroce che contiene tutti gli spazi e tutti i tempi.
Verso la fine della sua vita, Borges confessò di essere più fiero dei libri che aveva letto che di quelli che aveva scritto. Può darsi che questa idea riveli il nocciolo della rivoluzione borgesiana, un giro copernicano che fa della lettura, anziché dalla scrittura, il centro nevralgico della letteratura. Borges direbbe: «Questo lo fece già Cervantes». E di sicuro avrebbe ragione.