la Repubblica, 15 dicembre 2024
L’’affaire Pelicot
«Merci Gisèle». «Je suis Gisèle». Il suo nome ha risuonato nelle piazze francesi durante i cortei organizzati il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il suo volto appare in tanti murales, persino in Italia. Gisèle, inserita dalla Bbc nella lista delle cento donne più influenti dell’anno, insieme all’attrice americana Sharon Stone e alla giovane yazidi Nadia Murad, si batte per porre fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra. Gisèle, che non ha fatto il Sessantotto, non è scesa in piazza per chiedere l’autodeterminazione, e a settant’anni si ritrova a essere un’eroina delle giovani del MeToo.
È nata a Villingen, sud-ovest della Germania, il 7 dicembre 1952, arrivando in Francia all’età di cinque anni. Cresciuta da un padre militare, resta orfana di madre a nove anni. «Nella mia testa mi sentivo già donna», ricorda, parlando di un’infanzia con «poco amore». Nel 1971, conosce Dominique Pelicot che la seduce portandola in giro con una Citroën 2CV rossa. «Un colpo di fulmine» racconta lui. Gisèle sognava di fare la parrucchiera, studia da dattilografa, finisce impiegata nella società energetica Edf, unico vezzo, andare ogni tanto a sentire l’opera lirica.
Si è rivelata nella forza e la dignità a ogni tappa di una maratona giudiziaria diventata macchina nel tempo. Sembra di essere tornati ai processi per stupro che hanno cambiato la storia, o almeno così si sperava. Nel 1978 a Aix-en-Provence, c’era un’altra Gisèle, l’avvocata Gisèle Halimi che difendeva due giovani turiste belghe violentate da tre uomini vicino a Marsiglia. In Italia, sempre negli stessi anni, l’avvocata Tina Lagostena Bassi combatteva per le donne nelle aule giudiziarie. Cosa direbbero queste paladine delle battaglie femministe rivedendo, a quasi mezzo secolo di distanza, gli stessi logori cliché ripetersi in aula? Tutti gli imputati nelle ultime settimane si sono nascosti dietro a scuse come: «Mi sembrava consenziente», «pensavo fosse un gioco libertino», «visto che il marito era d’accordo, ero tranquillo». Gisèle davanti al tentativo di essere trasformata da vittima ad accusata. Troppo «libera» perché aveva tradito il marito. O invece troppo sottomessa, perché avrebbe acconsentito alle sue peggiori perversioni, e non sarebbe stata capace di allarmarsi davanti ai vari segnali.
«Ora basta, da quando sono arrivata in quest’aula mi sento umiliata. Ho l’impressione di essere io la colpevole» è sbottata a un certo punto, messa sotto pressione da domande e allusioni sempre più scomode. «È umiliante e degradante. Sembra che le vittime siano i cinquanta uomini seduti dietro di me». Il catalogo di presunte giustificazioni degli imputati, osserva, ricalca una «visione maschilista patriarcale che banalizza lo stupro». Da settembre non ha perso un giorno di udienza nel tribunale di Avignone. Ascoltando le ricostruzioni delle violenze, le domande agli imputati con il tono asettico dei magistrati. «Conferma la penetrazione nella vagina di Madame Pelicot?». I suoi avvocati le hanno consigliato di uscire quando venivano proiettate immagini e video. Lei ha scelto di restare. Gisèle ha voluto forse così riprendere il controllo di quello che ha subito passivamente. Si è concessa solo una pausa. Cinque minuti. Qualche giorno fa invece è uscita dall’aula quando un’avvocata della difesa ha provato a dimostrare che il suo cliente partecipava a un “gioco a tre”.
«Sento molte donne, e anche uomini, che parlano del mio coraggio. Non è coraggio, è forza di volontà» ripete. «Non voglio esprimere rabbia o odio. Solo la mia determinazione a cambiare la società». Quel fermo del 2020 nell’ipermercato di Carpentras ha aperto un’indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria francese. Gli investigatori pensavano di avere a che fare con uno dei tanti guardoni. E invece nella memory card della sua videocamera scoprono la foto inquietante di sua moglie Gisèle, nuda. «Abbiamo cominciato a farci domande perché era chiaro che la posizione della donna nella foto non era naturale» ricorda l’agente che ha testimoniato al processo. L’esame
abusi, contiene una serie di foto e video classificati per data, nickname e persino numero di telefono: 156 file, 3800 foto e video di atti di stupro. «È un file in cui tutto era classificato in modo metodico» racconta l’agente. Agli atti del processo la polizia giudiziaria ha stilato una lista di 72 uomini per 92 stupri commessi tra luglio 2011 e novembre 2020. Gli investigatori non sono però riusciti a identificare tutti i presenti nella casa di Mazan.
Sul banco degli imputati, alla fine ci sono cinquantuno uomini. “La banalità del male” ha titolato il quotidiano locale
La Provence,
mettendo in prima pagina i ritratti (in parte sfumati) di “uomini ordinari”. Età compresa tra 26 e 74 anni. Un camionista, un pensionato, un operaio, un tecnico informatico, un vigile del fuoco, una guardia carceraria, un ex detenuto sieropositivo, un ristoratore, un disoccupato, un giornalista, un infermiere. È un lungo elenco che attraversa classi popolari e piccola borghesia di provincia. Alcuni imputati hanno precedenti penali, anche di aggressione sessuale, altri invece una fedina immacolata. C’è chi è sposato con figli, chi è celibe, divorziato. L’unica cosa che hanno in comune è aver frequentato siti online per scambisti e serate “libertine”, secondo la loro definizione. Violentatori “a loro insaputa”, ripetono tutti adesso, sostenendo di aver creduto di partecipare a un gioco sessuale con una vittima «consenziente». Se ogni processo è una rappresentazione del mondo, per Gisèle questo è stato il «teatro della vigliaccheria».
A son insu,
a sua insaputa, si chiamava la stanza virtuale del forum online
Coco.gg
in cui Pelicot diffondeva gli inviti a stuprare la moglie. L’uomo non nascondeva le sue intenzioni e il metodo criminale usato, fornendo precise indicazioni sull’uso di ansiolitici per stordire Gisèle. Durante le perquisizioni, gli investigatori hanno trovato le scatole di Temesta, un potente sedativo, nascoste in un paio di scarpe da trekking, insieme a prescrizioni di Viagra. Quando il contatto con i futuri aggressori era stabilito sul forum, la conversazione proseguiva su Skype per organizzare l’appuntamento.
Pelicot chiedeva di parcheggiare a distanza per non destare sospetti tra i vicini, di evitare profumi o sigarette per non lasciare tracce olfattive. Entrando nella casa, gli aggressori dovevano spogliarsi in cucina, lavarsi le mani e sussurrare per non fare rumore. Pelicot documentava tutto nel suo fileabus.In diversi video si sente la sua voce che insulta la moglie mentre è violentata. Alla fine di ogni stupro – ha spiegato in aula – si occupava di lavare le parti intime della moglie e di rivestirla.
«Mi addormentavo in pigiama, mi risvegliavo in pigiama» ha raccontato Gisèle per sottolineare che non aveva mai avuto sospetti. C’erano stati improvvisi vuoti di memoria, e aveva consultato medici perché temeva di avere un tumore al cervello o l’inizio del morbo di Alzheimer. La donna soffriva anche di problemi ginecologici a ripetizione: infezioni del collo dell’utero, malattie sessuali. Tra gli imputati c’è un sieropositivo che l’ha violentata sei volte senza preservativo. Per miracolo, non è stata contagiata. «Non c’è stata pietà. Nessuno di loro ha pensato: “Questo è troppo”» continua Gisèle. «Sono stata sacrificata sull’altare del vizio». Le mogli degli imputati hanno raccontato di essere state all’oscuro di tutto. «Pensavo di vivere una vita tranquilla e appagante, ma mi sbagliavo» dice Emilie che si è ormai separata, ma vive nel dubbio di essere stata anche lei drogata e violentata, vittima di sottomissione chimica. Cilia ormai lo sa, e non ci sono più dubbi: tra il 2015 e il 2018 il marito e Pelicot l’hanno violentata una decina di volte, riproducendo su di lei il metodo criminale usato su Gisèle. «Era una persona meravigliosa» ha raccontato Cilia, rifiutando però di sporgere denuncia contro il marito per «proteggere» i loro cinque figli. Samira ha cercato di capire perché il suo compagno ha violentato sei volte Gisèle nel 2020; intanto non lo ha lasciato e continua a «sostenerlo»: “Se ci siamo incontrati – dice non è stato per caso, avevo questa missione». Un’altra donna ha confidato di sentirsi responsabile di «aver sempre rifiutato» le avances del marito perché troppo occupata ad accudire lamadre malata. «Penso che come uomo abbia avuto voglia di guardare altrove». Lucie è arrivata incinta all’udienza per difendere il compagno. «Mi ha detto che si trattava di una gioco tra marito e la moglie. E che lei era ubriaca».
Ogni tanto, Gisèle ha espresso una forma di nostalgia per quell’illusione in cui è vissuta tanti anni, e che ora non tornerà mai più. «Abbiamo condiviso risate e dolori» ha raccontato. «L’ho sostenuto nei suoi problemi di salute e di lavoro. Per me tutto questo era felicità. Pensavo di finire i miei giorni con questo signore, questo padre premuroso». Quando è stato arrestato, Dominique Pelicot ha cominciato a parlare, riconoscendo la sua colpevolezza. «Confesso tutti i fatti di cui sono accusato, senza eccezioni» è stato l’esordio di Pelicot in tribunale. «Sono uno stupratore. Lo sono come loro» ha proseguito guardando gli altri imputati, mentre dal gruppo si levava un brusio di disapprovazione. «Sapevano in che stato era mia moglie prima di venire, non possono negare». Pelicot ha tentato di giustificarsi, ricordando un’infanzia con un padre violento, confidando di aver subito abusi sessuali. «Non si nasce perversi, si diventa» ha azzardato, chiedendo più volte perdono, prima di tutto alla moglie. «Gisèle non se lo meritava» ha commentato, aggiungendo di averla «amata moltissimo». E allora perché, domandano i giudici? «Avevo una dipendenza – ha risposto – avevo dei bisogni che ho soddisfatto da egoista. E me ne vergogno». Con quella danza macabra intorno al villino di Mazan inseguiva una “fantasia”. «Volevo sottomettere una donna ribelle, per puro egoismo». Ma «senza farle soffrire», ha azzardato a proposito dell’uso di sedativi. Negli ultimi giorni del processo, Béatrice Zavarro ha cominciato la sua arringa in difesa di Pelicot, ammettendo una posizione non facile. «Sono diventata l’avvocato del Diavolo». Un missione che ha portato avanti, misurando ogni parola ed esprimendo sempre rispetto per la vittima, a differenza di altri avvocati della difesa. «Vedo che Gisèle sta diventando il simbolo di una lotta. Meglio così. Ammiro quello che fa» ha confidato fuori dall’aula Zavarro. L’avvocataha cercato di far emergere il «lato A» di Pelicot, quello del «buon marito, buon padre, buon nonno». Una descrizione che ormai appartiene al passato. La famiglia Pelicot non esiste più, almeno non per come si era costruita negli anni. Al processo hanno partecipato i tre figli della coppia. Caroline, la primogenita, è convinta di essere stata anche lei drogata e abusata dal padre. Pelicot nega nonostante una foto della figlia nuda trovata nel suo computer: «Non ho mai toccato, drogato né scattato foto di mia figlia. Mia figlia per me è come i miei nipoti, sono dei gioielli, non si toccano». «Caroline, non ti ho mai fatto niente» ha detto Pelicot, subito interrotto dalla figlia. «Morirai nella menzogna!» ha gridato Caroline che non vuole più portare il cognome di suo padre. Hanno parlato in aula anche i figli maschi, David e Florian. «Sei il demonio» ha urlato uno dei due, scagliandosi contro il genitore.
A spalleggiare Gisèle in aula c’erano due nuovi angeli custodi. Gli avvocati Antoine Camus e Stéphane Babonneau, che hanno accompagnato la metamorfosi di questa donna e ne sono diventati i portavoce. «Avrebbe tutte le ragioni del mondo per essere rabbiosa, per denunciare la sessualità maschile in generale» ha commentato Camus. «Invece la scelta di far portare la sua voce da due uomini non è un caso, è una decisione attentamente ponderata». Un gesto politico, come la decisione di rendere pubblico il processo. Camus spiega che Gisèle ha «scelto di trasformare il fango in materia nobile e di andare oltre l’oscurità della sua storia per trovare un senso». È quella speranza di «cambiare la società». Molti in Francia ripetono: ci sarà un prima e un dopo. Il “processo di Mazan” sarà uno spartiacque. «È stato un campanello d’allarme, se non un risveglio, per indagare il modo in cui gli uomini ancora oggi guardano le donne» osserva Agnès Fichot, avvocata che ha lavorato da giovane con Gisèle Halimi, ai tempi del processo di Aix-en-Provence. Nel 1978 quella battaglia giudiziaria aveva portato per la prima volta a una legge che definiva con precisione lo stupro. Oggi bisognerebbe modificare la definizione del consenso delle vittime, definire meglio la sottomissione chimica, rafforzare l’educazione sessuale a scuola. «Soprattutto – conclude Fichot – non dobbiamo dimenticare». Da Aix a Avignone, andata e ritorno.
Nella requisitoria finale, dopo aver chiesto condanne pesanti, tra i quattro e i vent’anni di carcere per i 51 imputati del processo per stupro, l’accusa ha auspicato che la sentenza attesa venerdì permetta di «guardare al futuro». «Con il vostro verdetto, potrete dire che non esiste uno stupro ordinario, accidentale, involontario» ha sottolineato la pm Laure Chabaud rivolgendosi ai giudici. «Restituirete a Gisèle Pelicot una parte dell’umanità che le è stata rubata. Invierete alle donne il messaggio che non c’è fatalità nella sofferenza, e agli uomini che non c’è fatalità nell’agire male. Ci guiderete nell’educazione dei nostri figli, perché è attraverso l’educazione che si realizzerà il cambiamento», ha concluso la pm.
Anche per Gisèle ci sarà un prima e un dopo. La sua seconda vita è cominciata entrando nel commissariato di Carpentras. «Quei poliziotti mi hanno salvata» ha ripetuto più volte. Da qualche mese, è ufficialmente divorziata. Si è allontanata da Mazan, sta cercando di ricostruirsi una nuova dimensione, la sua. È sollecitata dai media del mondo intero. Le propongono di scrivere libri. Netflix e altre piattaforme lavorano per trasformare la sua storia in una serie tv. «Gisèle potrebbe scegliere di trascorrere i prossimi anni guardando il mare, e sarebbe un riposo meritato» osserva l’avvocato Camus. «O forse vorrà continuare a essere attiva nella sua battaglia». L’unica preoccupazione, confida l’avvocato, vedendo la sua cliente entrare in aula sempre a testa alta, restando stoica davanti ai suoi aggressori, è che questo nuovo statuto di icona possa «consumare il resto della sua vita». Poteva restare solo vittima, una delle tante. Ha deciso di diventare protagonista e prendere in mano un destino che non ha scelto.