la Repubblica, 15 dicembre 2024
Così passeremo dai manoscritti agli “umanoscritti”
Nella Divina Commedia, all’ingresso del Purgatorio si trova una sorta di terrazzo naturale, con pareti e pavimento di marmo. Vi sono scolpiti altorilievi di fattura inusitata, soprattutto per la verosimiglianza che inganna i sensi e per la capacità di rappresentare idealmente non soltanto una scena ma una sequenza di azioni, come se figure di pietra potessero muoversi, parlare, gesticolare. Di fronte a questa mimesi prodigiosa, il personaggio di Dante comprende che nessuna mano umana sarebbe riuscita a produrla: non può che essere stata la mano di Dio.
Esseri umani molto più comuni di Dante Alighieri hanno da sempre immaginato di attribuire prodotti dell’azione umana a soggetti che umani non sono: animali parlanti, voci di spiriti, automi scacchisti, veicoli a guida autonoma. Né faremo qui differenza tra le immaginazioni fantastiche e quelle d’invenzione, secondo la distinzione introdotta dal grande designer, artista e pensatore Bruno Munari, per cui la fantasia può immaginare qualcosa che non c’è e non può esistere mentre l’invenzione deve potersi incarnare. Per il nostro discorso l’automobile magica di un racconto per ragazzi (come la Chitty Chitty Bang Bang dell’omonimo racconto di Ian Fleming) vale un prototipo di Tesla perché esiste una scena su cui tutte le immaginazioni svolgono lo stesso ruolo, che esse siano fantasie o invenzioni.
Per parlarne a lezione e in pubblico ho di recente composto una slide con quattro immagini: un telefono adisco, ilLiveAid, tagliatelle e ravioli artigianali, un manoscritto medioevale. Nessuno ha finora indovinato che cosa accomuni questi oggetti: la caratteristica di aver dovuto cambiare nome. Fino a che non sono stati inventati i telefoni portatili, noi non sapevamo di avere in casa un telefono “fisso”: era un telefono, il telefono, l’unico. Fino all’invenzione della registrazione fonografica, non c’era musica che non fosse “dal vivo”. Fino all’invenzione della stampa non c’era bisogno di parlare di “manoscritti”, non c’erano scritti che non fossero fatti “a mano”; così anche la pasta,prima dell’invenzione di congegni per impastarla e spianarla.
Tutte le volte che qualcuno di noi immagina di delegare un compito umano a qualche istanza non umana, da un’entità teologica a un apparato ingegneristico, tale compito viene non soltanto ridefinito ma spesso anche rinominato. Quando Dante ha immaginato altorilievi di cui Dio fosse stato l’autore, non l’ha chiamato “Dio”: «Colui che mai non vide cosa nova / produsse esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si trova» (Purg. X- 94/96): Dio è colui che non ha mai visto nulla di nuovo: è fuori dal tempo ed è in tutti i tempi, nulla può apparirgli per la prima volta. Sono gli esseri umani che si possono sbigottire per sculture che sembrano muoversi, usare il linguaggio verbale, cantare e spargere incensi (“visibile parlare”), poiché qualcosa del genere sulla Terra non c’è. Se non c’è deve avere provenienza sovrumana, cioè divina. Infatti è umano chiamare “creazioni” le produzioni artistiche meglio riuscite e, implicitamente o esplicitamente, attribuire all’artista connotati semidivini o divini.
Gli esseri umani inventano (per fantasia, speculazione o ingegno produttivo) istanze che li costringono a ridefinire e rinominare le attività umane e anche essi stessi, come esseri umani. L’intelligenza artificiale generativa pone per esempio il problema di trovare un nome alle forme di scrittura di diretta produzione umana. Dopo i manoscritti ci troveremo a parlare di “umanoscritti” ? Potrebbe anche essere. Ma forse è più interessante seguire come ridefiniremo noi stessi in quanto esseri umani. In una conferenza del 1967 (Cibernetica e fantasmi), Italo Calvino immaginava l’imminente produzione di una macchina per l’invenzione letteraria. Non si sbagliò di molto: c’è voluto più tempo di quanto sospettasse e non ci si è arrivati attraverso l’analisi strutturale della narrazione, come allora si pensava, ma per via statistica. Per il resto oggi le cose vanno più o meno come lui le immaginava allora. Per lui quella era innanzitutto l’occasione per riflettere e ridefinire il ruolo dell’autore, nonché quello del lettore. Che differenza passa tra un testo “umanoscritto” e un testo “IA-scritto”? In che piega del testo appare, se appare, l’intenzione consapevole di un autore come si dice “in carne e ossa” (aggiungerei il sistema nervoso) ?
Mi pare che in questo campo si affrontino due tendenze macroscopiche opposte. La prima sembra prevalere in una avanzata inesorabile e priva di esitazioni. Il suo vessillo svetta alla testa dello schieramento ed è rappresentato dal suo stesso nome: Intelligenza. Dopo l’invenzione della stampa la scrittura si divise in due: la scrittura a mano e la scrittura a stampa; così la musica dopo la novità fonografica. Diremo lo stesso dell’intelligenza? Qualcuno lo fa e attribuisce all’essere umano un’intelligenza oggi confinata nei limiti del “naturale”. Capitò anche con la memoria, sin dall’antichità, quando l’invenzione delle mnemotecniche separò una memoria artificialis da una memoria naturalis – salvo poi accorgersi che l’artificiale era edificata e tenuta assieme dal collante della naturale. Anziché “intelligenza” avremmo potuto attribuire a questo campo di ricerca e ai suoi prodotti un altro nome. Per esempio, “ingegneria”.
“Intelligenza” conferisce ai dispositivi la facoltà di intelligere, avere idee, stabilire relazioni, formulare giudizi, cogliere e costruire il senso. “Ingegneria” ricorda che quei dispositivi li hanno inventati, prodotti, programmati e configurati esseri umani. Ma le cose vanno in un altro modo: sappiamo bene che sotto il vessillo dell’intelligenza che ora chiamerò “estesa” si fa a gara ad attribuire caratteristiche soggettive e umane ai dispositivi. Con loro vogliamo chiacchierare, chiediamo di mettere della musica e ci piacerebbe di sentirli parlare con la voce di Scarlett Johansson – pretese che ci ricordano quelle dei giochi infantili, «facciamo che tu eri».
Ora noi pretendiamo di avere creato una macchina a nostra immagine e somiglianza, che fa quello che facciamo noi, però meglio. La differenza è che mentre Dio è non solo onnipotente ma anche onnisciente la macchina, – a cui annettiamo un’incombente onnipotenza – non sa (per definizione) un bel nulla. La si può chiamare Intelligenza Estesa perché il suo tipo di elaborazione sia compreso nell’estensione del concetto di “intelligenza” bisogna limitare, di tale concetto, l’intensione. Dobbiamo in particolare togliere all’intelligenza la dimensione semantica, cioè la relazione tra significanti e significati. Quando diciamo che la macchina “comprende” sempre di più il linguaggio umano stiamo aderendo surrettiziamente a un modello sintattico- pragmatico, in cui la comprensione si definisce come reazione adeguata a uno stimolo. Il senso non è pervenuto, non è percepito: se ne fa a meno. Un buon modello di questo tipo di interazione è quello dei comandi vocali: per avere l’illusione di usare la nostra lingua cosiddetta naturale con una macchina possiamo certo parlare, ma dobbiamo scandire e evitare le ambiguità, con tanti saluti a Roman Jakobson e all’idea di funzioni linguistiche. L’emulazione dell’intelligenza umana va perfezionandosi: ma resta emulazione, elaborazione di qualcosa che è stato già detto, fatto, esperito e quindi immagazzinato.
L’aspirazione di ideare macchine che svolgano compiti umani è antichissima: la smania di produrre che non ha altro limite che la produzione di qualcosa che produce da sé. In cosa è cambiata questa aspirazione, ai nostri giorni? Abbiamo effettivamente inventato, prodotto, programmato e configurato macchine generative, ma nessuno di noi sa come funzionino esattamente. Dato il comando di avvio esse ormai fanno da sé ed ecco che il “sé” che riferiamo loro diventa un po’ più antropomorfo di prima, come se la nostra inconsapevolezza potesse produrre la loro coscienza. Dalla penna è uscito inavvertitamente un riferimento alla creatività.
Il concetto di creatività è sopravvissuto e mi sembra che possa ergersi a insegna di uno schieramento alternativo. Contro l’Intelligenza Estesa può agire una Creatività Ristretta. Ristretta alla facoltà umana di immaginare quel che non c’è e il processo da attivare per produrlo. Ristretta nell’estensione perché più esigente nell’intensione. Una creatività finalmente post-umanistica, che cioè non intenda riportare i propri ritrovati alla misura dell’essere umano, alla sua immagine e alla rassomiglianza con esso ma, anche grazie alla propria interazione con essi, ne ridefinisca l’identità. Senza mai sognarsi, magari, di estromettere il senso dall’intelligenza.
Anticipiamo una parte del contributo di Stefano Bartezzaghi che sarà pubblicato su MagIA, il Magazine intelligenza artificiale dell’Università di Torino. www.magia.news