la Repubblica, 16 dicembre 2024
L’epistolario tra Primo Levi e Heinz Riedt
La vita di Primo Levi è stata, salvo il periodo trascorso ad Auschwitz, quella di un chimico impiegato in una azienda di Settimo Torinese che prova a scrivere nei ritagli di tempo, perlopiù di notte o durante le vacanze. La deportazione era stata, a suo dire, un’avventura, tanto da modificarlo profondamente, dargli maturità e persino conferirgli una ragione di vita. Tuttavia nella sua esistenza c’è un aspetto finora poco noto, non meno avventuroso, accanto all’attività di testimone e a quella di scrittore. Si tratta dell’attività di corrispondente, di scrittore di lettere, che intrattiene relazioni a distanza con alcuni interlocutori privilegiati, uomini e donne, spesso in paesi e nazioni lontane dall’Italia.
Forse è proprio qui che Levi ha sperimentato altri rapporti umani e intellettuali significativi, sino a rivelare parti meno conosciute di sé. Ora uno di questi epistolari viene reso pubblico. È la corrispondenza con il traduttore tedesco diSe questo è un uomo, Heinz Riedt, curata in modo pregevole da Martina Mengoni (Einaudi). Sono 132 lettere che coprono gli anni dal 1959 al 1968. Sono scambi di missive che ci offrono, oltre a informazioni preziose per gli studiosi dello scrittore torinese, uno spaccato della sua personalità.
Nel 1958, come è noto, era finalmente riapparso presso l’editore Einaudi, che l’aveva respinto nel 1946,Se questo è un uomo. Da quel momento il suo primo libro aveva iniziato la propria strada nel mondo, compreso il Paese che l’aveva deportato in un Lager. Nel 1959 l’editore tedesco Fischer decide di tradurlo. Per il chimico torinese è una sorta di prova del nove di quanto aveva scritto: l’avrebbero probabilmente letto i suoi carnefici, o almeno quelli che erano stati acquiescenti con il regime nazista. Una rivoltella puntata alla testa dei tedeschi, pronta a sparare parole incancellabili e durissime.
Nelle prime righe di quel libro Levi usa l’espressione «per mia fortuna», alludendo al momento in cui era stato deportato ad Auschwitz per essere impiegato come forza lavoro. In definitiva la dea bendata non era stata totalmente inclemente con lui: era ritornato salvo a casa e ora si trovava a dover scambiare missive con «un tedesco anomalo» che avrebbe trasferito le sue frasi nella lingua dei dominatori.
Mentre Levi è nel comando chimico nel Lager di Monowitz, Heinz Riedt si trova in Italia per ragioni di studio. È finito all’Università di Padova per via d’una borsa di scambio accademico. Conosce l’italiano perché ha soggiornato prima a Napoli e poia Palermo, in quanto figlio d’un console tedesco. Il padre, di sentimenti antinazisti, era stato mandato anzitempo in pensione e aveva fatto ritorno con la famiglia in Alta Baviera. Heinz studia diritto e scienze politiche, ma viene chiamato alle armi nel 1939. Poiché conosce bene anche il francese viene aggregato alla scuola dell’intelligence dell’esercito, e quindi incaricato di censurare la posta in un campo di prigionia in Germania. Ammalatosi, riesce a farsi congedare temporaneamente e a trasferirsi in Italia, dove entra in contatto con un gruppo partigiano di Giustizia e libertà, per cui raccoglie informazioni nel suo ruolo di traduttore civile delle SS.
Una storia avventurosa anche la sua, che dispone questo uomo così singolare ad essere accolto con favore da un diffidente Primo Levi. L’ex deportato risponde entusiasta alla lettera di presentazione del traduttore: «È forse Lei la persona che da anni speravo di incontrare». La prima parte dell’epistolario contiene le proposte di traduzione di Riedt cui Levi, che conosce il tedesco da autodidatta, per gli studi chimici e per il Lager, suggerisce varianti e cambiamenti con un puntiglio quasi maniacale. Un ping pong ricco di spiegazioni, soluzioni e decifrazioni, una specie di autocommento come poi farà nelle edizioni scolastiche dei suoi libri più celebri.
Il tono è inizialmente formale. Riedt lo apostrofa con: dottor Levi; mentre il chimico usa: Signor Riedt. La convenzionalità delle formule tradisce comunque un moto di reciproca simpatia. Primo ha trovato il suo “simbionte”, come gli era accaduto nel Lager con Alberto e poi nel viaggio di ritorno verso l’Italia con il Greco e con Cesare? In qualche misura sì. Vanno avanti dall’agosto 1959 al dicembre 1961. La prefazione al libro è ricavata da una lettera di Levi. Nello stesso anno del Muro, Riedt, che dal 1950 abitava a Berlino Est, decide di passare all’Ovest abbandonando tutto: casa, vestiti, oggetti, libri.
Levi rimasto soddisfatto del lavoro di Riedt cerca di fargli tradurre La tregua. Ma non ci riesce. L’assegnano ad altri. Sarà sua invece la versione tedesca di Storie naturali, anche qui con un fitto scambio di lettere. Cercheranno in varie occasioni di incontrarsi di persona, ma ci riusciranno solo due volte, una documentata da una foto con le rispettive famiglie. Intanto Riedt che traduce molti autori italiani, tra cui Calvino, Natalia Ginzburg e l’amato Goldoni, entra in contatto con il Piccolo Teatro di Milano, per via delle rappresentazioni di Brecht.
Il tono delle missive con Levi si fa via via più affettuoso: passano al tu. Heinz si lamenta dello stipendio di traduttore e Primo si informa su quanto paga Einaudi. Ma il cuore dei loro scambi intellettuali è l’Europa. Pochi giorni dopo la costruzione del Muro, nell’agosto del 1961, Levi gli scrive molto preoccupato: l’Europa sembra ritornata «un covo di serpenti». Aggiunge come «questa Europa, che sento come la mia vera patria, e come la patria dell’unica vera civiltà universale, sia in pari tempo un permanente focolaio di incomprensioni, di tradimenti e di tirannidi, la fabbrica delle idee e della guerra». Ciò che lega i due amici è proprio l’idea di un continente diverso da quello sorto dopo le grandi attese del dopoguerra. Leggere queste lettere fa riflettere sul passato prossimo ma anche sul nostro presente, una mescolanza di preoccupazioni e speranze sull’Europa in cui viviamo.