la Repubblica, 17 dicembre 2024
L’infanzia di papa Francesco – tra prostitute e zitellone – raccontata da lui stesso
Tratto da Spera di Papa Francesco con Carlo Musso in uscita il 14 gennaio
Il barrio era un microcosmo complesso, multietnico, multireligioso, multiculturale. In famiglia abbiamo sempre avuto ottimi rapporti con gli ebrei, che a Flores chiamavamo “i Russi”, perché in tanti venivano dalla zona di Odessa dove viveva una numerosissima comunità ebraica, che nella Seconda guerra mondiale sarebbe stata colpita da un immane massacro da parte delle forze di occupazione rumene e naziste. Tanti clienti della fabbrica dove lavorava papà erano ebrei, impegnati nel settore del tessile, e molti erano nostri amici.Così come, pure nella nostra compagnia di ragazzini, avevamo diversi amici musulmani, che per noi erano “i Turchi”, visto che perlopiù erano sbarcati col passaporto del vecchio Impero ottomano. Erano siriani e libanesi, e poi iracheni e palestinesi. Il primo periodico in lingua araba a Buenos Aires è addirittura dell’alba del Novecento. «C’è il Turco? Viene anche il Russo?». Nel barrio della mia età più verde le differenze erano normalità, e ci si rispettava (…). Proprio come il mercato di strada, il quartiere era un concentrato di umanità varia. Laboriosa, sofferente, devota, gaudente.
C’erano quattro “zitellone”, le signorine Alonso, pie donne di origine spagnola ed emigrate sulla Plata, che erano abilissime ricamatrici, dalla tecnica sopraffina. Un punto e una preghiera, una preghiera e un punto.
Mammamandò da loro mia sorella, perché imparasse; ma Marta si annoiava a morte, e protestava: «Mamma, ma quelle non parlano mai, non dicono una parola, pregano e basta!». (…) Quasi all’angolo della nostra via c’era poi una peluquería, con appartamento annesso; la parrucchiera si chiamava Margot, e aveva una sorella, che faceva la prostituta.
Contemperava quell’attività con quella di shampoo, taglio e messa in piega. Era gente molto buona, a volte anche mamma andava a farsi i capelli da loro. Un giorno Margot ebbe un figlio. Io non capivo chi fosse il padre, e la cosa mi stupiva e incuriosiva,ma il barrio non parevapreoccuparsene troppo.
A quello stesso numero civico, in un altro appartamento, viveva un uomo sposato con una donna che era stata ballerina di rivista, e anche lei con fama di prostituta: ancora giovane, morì tisica, piegata da quella vita. Ricordo la frettolosa tristezza di quel funerale: il marito appariva scontroso e distante, ripiegato nel suo egoismo, preoccupato solo che il morbo non lo intaccasse e della nuova donna che avrebbe sostituito la defunta. Anche la madre di quella signora, Berta, una francese, era stata ballerina, e si diceva si fosse esibita nei night club di Parigi; ora faceva la serva in casa d’altri, per ore e ore, ma aveva un portamento e una dignità che impressionavano.
Fin da bambino, ho conosciutoanche il lato più oscuro e faticoso dell’esistenza, l’uno e l’altro insieme, nello stesso isolato. Pure il mondo del carcere: le spazzole che utilizzavamo per i vestiti erano manufatti che acquistavamo dai detenuti della prigione locale, ed è così che ho percepito per la prima volta l’esistenza di quella realtà.
Anche altre due ragazze del quartiere, pure loro sorelle, facevano le prostitute. Ma d’alto bordo, queste: fissavano appuntamenti per telefono, si facevano venire a prendere con l’automobile. Le chiamavano “la Ciche” e “la Porota”, e tutti nel barrio le conoscevano. Gli anni passano, e un giorno, quando ormaiero vescovo ausiliare di Buenos Aires, squilla il telefono in episcopio: è la Porota che mi cerca. L’avevo persa completamente di vista, non la vedevo da quando ero un ragazzino. «Ehi, non ti ricordi? Ho saputo che ti hanno fatto vescovo, voglio vederti!». È un fiume in piena. Vieni, ho risposto e l’ho ricevuta in vescovado, ancora ero a Flores, doveva essere il 1993. «Sai – mi dice lei – io ho fatto la prostituta dappertutto, anche negli Stati Uniti. Ho guadagnato, poi mi sono innamorata di un uomo più anziano, è stato il mio amante, e quando è morto ho cambiato vita. Ho una pensione, ora. E vado a fare il bagno ai vecchietti e alle vecchiette delle case di riposo che non hanno nessuno che si prenda cura di loro. A messa non vado molto, e con il mio corpo ho fatto di tutto, ma ora voglio curarmi dei corpi che non interessano a nessuno».
Una Maddalena contemporanea. Mi dice che anche la sorella, la Ciche, ha cambiato vita, e passa il tempo a pregare in chiesa: «Diglielo anche tu che deve muovere il sedere e fare qualcosa per gli altri!». Aveva un linguaggio pittoresco e immaginifico, quattro imprecazioni ogni cinque parole. Ed era malata.
Tempo dopo, quando già ero cardinale di Buenos Aires, la Porota mi richiama per dirmi che avrebbe voluto far festa con le sue amiche, e chiedermi se potessi andare a dir messa per loro, nella parrocchia di Sant’Ignazio. Dico sì, certamente, domandandomi chi mai potessero essere quelle amiche. «Vieni prima, però, che tante si vogliono confessare» aggiunge la Porota.
In quel periodo m’incontravo spesso con padre Pepe, don José di Paola, un giovane sacerdote che avevo conosciuto fin dall’inizio del mio episcopato e che dal 1997 era parroco alla Virgen de Caacupé, nella villa 21. È un uomo di Dio, uno dei preti che da sempre prestano la loro opera nelle villas miserias, le baraccopoli che costellano Buenos Aires, ce ne sono una trentina nella sola capitale e un migliaio nell’interaprovincia. Le villassono un concentrato di umanità, formicai con centinaia di migliaia di persone. Famiglie che per la maggior parte vengono dal Paraguay, dalla Bolivia, dal Perù, e dall’interno del Paese. Lo Stato lì non lo hanno mai visto, e quando lo Stato per quarant’anni è assente, non dà case, luce, gas o trasporti, non è difficile che si crei al suo posto un’organizzazione parallela. Con il tempo la droga ha cominciato a circolare in maniera massiccia, e con la droga la violenza e la disgregazione famigliare.
Il paco, la “pasta de coca”, quel che resta dalla lavorazione della cocaina per i mercati ricchi, è la droga dei poveri: un flagello che moltiplica la disperazione. Là, in quelle periferie che per la Chiesa devono essere sempre più nuovo centro, un gruppo di laici e di sacerdoti come padre Pepe vivono e testimoniano il Vangelo ogni giorno, tra gli scartati di un’economia che uccide.
Chi dice che la religione è l’oppio dei popoli, un rassicurante racconto per alienare le persone, farebbe bene a farsi prima un giro nelle villas: vedrebbe come, grazie alla fede e a quell’impegno pastorale e civile, sono progredite in modo impensabile, pur tra enormi difficoltà. Farebbe esperienza anche di una grande ricchezza culturale. Toccherebbe con mano che, proprio come la fede, ogni servizio è sempre un incontro, e che siamo noi soprattutto che dai poveri possiamo molto imparare. Quando qualcuno dice che sono un papa villero, prego solo di esserne sempre degno.
Incontrare padre Pepe fa bene alla mia anima e alla mia vita spirituale. Nel tempo, siamo diventati sempre più amici. Quell’anno, credo fosse il 2001 e Pepe era un curavillerogià da diverso tempo, si trovava a vivere un periodo complicato e difficile, di crisi nella propria vocazione sacerdotale, che poi avrebbe raccontato lui stesso. Parlò con franchezza ai suoi superiori, chiese di essere dispensato dall’esercizio del sacerdozio, e andò a lavorare in una fabbrica di scarpe. Quando me lo raccontò gli dissi semplicemente: vieni a trovarmi quando vuoi. E lui prese a farlo. Più di una volta all’uscita dal lavoro si faceva un paio d’ore di strada e veniva in cattedrale. Lo aspettavo, gli aprivo la porta, lo ascoltavo e parlavamo. Ma sempre nella libertà. Un incontro dopo l’altro, un mese dopo l’altro il tempo passava, fino a quando una sera venne e mi disse: «Padre, eccomi… Mi piacerebbe celebrare la messa». Ci abbracciammo. Vuoi che la celebriamo insieme il 20 luglio, il giorno della Fiesta del Amigo? Ne fu contento. Allora facciamo a Sant’Ignazio, dissi: io vado a dir messa lì perché una signora di Flores me lo ha chiesto.
Così ci andammo insieme. Ci incamminammo dall’arcidiocesi lungo calle Bolívar e arrivammo alla chiesa: erano tutte ex prostitute e prostitute del “sindacato”. E tutte si volevano confessare. Fu una celebrazione bellissima. Anche la Porota era contenta, quasi commossa.
Mi avrebbe fatto chiamare un’ultima volta, qualche tempo dopo, mentre era ricoverata in ospedale. «Ti ho chiesto di venire perché mi portassi l’unzione degli infermi e la comunione, ché questa volta non me la cavo mica, sai». Il tutto tra un’imprecazione contro un medico e uno strillo verso un’altra paziente; non aveva perso nerbo, neanche ora che era stremata. «Genio y figura hasta la sepultura» diciamo in Argentina.
Ma se ne è andata bene, come «i pubblicani e le prostitute» che ci «passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). E molto bene io le ho voluto. Anche adesso, il giorno della sua morte non dimentico di pregare per lei.