Corriere della Sera, 17 dicembre 2024
Intervista a Renzo Piano
Il sommo architetto Renzo Piano... «Ma va là, sommo! Semmai sono una somma», ride il più famoso maître bâtisseur (mastro costruttore) del pianeta. E spiega: «Qual è l’essenza di noi tutti? Siamo la somma dell’arricchimento dei migliori amici che abbiamo avuto, le migliori persone incontrate, i migliori libri letti, i migliori film visti, i viaggi fatti, le delusioni patite, i sogni realizzati...». E lui, di sogni, ne ha realizzati almeno un centinaio.
All’ultimo sta lavorando in questi giorni col premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, economista, inventore del microcredito moderno noto come «banca dei poveri» e premier ad interim per acclamazione del Bangladesh dopo le rivolte studentesche represse nel sangue mesi fa. Obiettivo? «Creare finalmente un campus protetto per l’Asian Women University a Chittagong, finanziato dalla Banca Mondiale e varie Ong umanitarie per fare studiare (gratis, con borse di studio) decine di migliaia di ragazze costrette a scappare dai loro Paesi perché lì le donne sono escluse dall’istruzione. Campus protetto, a differenza delle decine di campus aperti che abbiamo costruito dappertutto da New York a Hangzhou, perché quelle ragazze devono sentirsi libere e tutelate da ogni possibile violenza». Per capire cosa sognano, oltre alla sicurezza, al verde, a un ambiente sereno, pieno di acqua e di luce, ne ha ascoltate diverse. «Una giovane rifugiata afgana ci ha chiesto una cosa che mi ha fatto venire la pelle d’oca: “Nella mia stanza vorrei tanto una finestra”. Non ne aveva mai avuta una».
Lui di finestre ne ha spalancate migliaia. Metaforicamente, di più ancora. Lasciando che da tutte entrassero più lingue, più culture, più esperienze possibili. E imparando qualcosa da tutte. Compresi amici apparentemente estranei al suo mondo. Come Joel Coen e la moglie Frances McDormand: «In realtà i nostri mestieri hanno molte cose in comune. Il cantiere d’un film è un caos creativo dove devi inserire tanti pezzi diversi senza poterli vedere tutti insieme se non alla fine. Ne parliamo spesso. Andiamo in barca insieme. L’anno scorso, con Frances, abbiamo costruito un castello di sabbia». Un castello di sabbia by Renzo Piano? «Tu ridi, ma non è una cosa da niente». Che fine ha fatto? «Abbiamo aspettato che la marea se lo portasse via».
Su una mensola dello studio genovese, grandi vetrate che degradano dal monte al mare, c’è la riproduzione gigante e arzigogolata di un neurone, una specie di radice dai mille capillizi: «Nelle nostre teste ne abbiamo 85 o 86 miliardi. Lo spazio che c’è tra un neurone e l’altro si chiama sinapsi. Quando iniziano a incollarsi cominciamo a perdere colpi». Lui no di sicuro. A 87 anni è pieno zeppo di lavoro e di progetti. E a fargli tener botta è proprio la curiosità di un ventenne interessato a tutto: «Se parli con gli scienziati, dopo un po’ capisci che anche questi qui, che studiano le cellule, le strutture del cervello, i movimenti, il cuore, il respiro, eccetera, a un certo momento, immancabilmente, si fermano. Dove? Davanti al mistero». Quello lo affascina.
Prendi il Big Bang: «Ho collaborato a progettare il Cern Science Gateway e se faccio una cosa, che sia un museo come quello sul Bosforo o il canile della zia, voglio sapere tutto quello che posso, per capire cosa fare. E lì studiano l’immensamente grande e l’immensamente lontano. Sono assetato di sapere. Il Big Bang è avvenuto 3 miliardi e 700 milioni d’anni fa. Dico: 3 miliardi e 700 milioni d’anni fa! E ci ha messo un milionesimo di secondo! Non è che ha fatto booooooooom! Ha fatto bum in un milionesimo di secondo! C’è da essere sgomenti a parlar di queste cose... Ti chiedi: ma “prima”? Alla fine c’è sempre il mistero...».
Credi in Dio? «Sono uno che si interroga. Ho passato un po’ di tempo con papa Francesco. Ha qualche mese di più ma siamo coetanei. Uno dei suoi primi ricordi sono le lacrime di una vicina quando la radio argentina disse che era finita la Seconda guerra mondiale. Anche mia mamma quel giorno scoppiò in pianto. Ci si intende, fra coetanei. Ne abbiamo parlato. Lui dice che non esistono veri atei. Non ne esistono. Nessuno è nato ateo. Devi per forza avere la coscienza del mistero in cui siamo avvolti...». Un mistero discusso con le amicizie più care: «Non necessariamente conosciute di persona. Penso a Jorge Luis Borges. Non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo ma lo conosco. Lo amo molto. La sua definizione del tempo è straordinaria: “Il tempo è un fiume che mi trascina,/ ma sono io quel fiume;/ è una tigre che mi divora,/ ma sono io quella tigre;/ è un fuoco che mi consuma,/ ma sono io quel fuoco”. Ce l’ho sempre qui, in testa. Dove si confonde con Albert Einstein: “Il tempo è un’illusione, per quanto persistente”».
Per essere un buon architetto non basta aver «una bella mano», «No. Occorre sconfinare. Sconfinare sempre. Essere curiosi. Avidi di sapere. C’è un’altra frase di Borges che ho sempre in testa: “La vita è sospesa tra la memoria e l’oblio”. Anche se dimentichiamo dettagli delle cose che facciamo, delle persone che incontriamo, dei libri che leggiamo (grazie a Dio sennò impazziremmo) molto ci resta dentro. Senti un pezzo di musica e non lo riconosci ma sai di averla già ascoltata, ti viene un’idea e sai che non appartiene a te solo... Ma a tutti coloro che ti hanno arricchito».
Come Italo Calvino: «Teneva sempre in tasca una penna e dei foglietti: “Non sempre le buone idee ritornano”, diceva. Se gli arrivava un’intuizione, l’annotava. Aveva ragione. Ho copiato da lui. Più ancora però lui mi ha ispirato l’arte della leggerezza. Mentre tiravamo su il Beaubourg a Parigi veniva a vedere i lavori. Era affascinato dal cantiere. Ma se lui aveva una sorta di riverenza verso il costruttore, io avevo all’opposto l’invidia per lo scrittore. Ai foglietti e alla penna io ho aggiunto in tasca un metro». Per la devozione alla misura: «La misura è tutto. Non c’è estro, fantasia, creatività senza misura. Io e Peter Rice, il genio dell’ingegneria che ha lavorato tantissimo con me e il mio amico e socio Richard Rogers (da cui ho imparato la sublime cocciutaggine, quando si ha ragione) non solo al Beaubourg, ci sfidavamo ogni giorno su tutto: “Quanto c’è da qui a quel pilone?”, “sette metri e 40 centimetri!”, “quella panchina?” “cinque e 60”. Vinceva sempre lui».
Metro e metrica: «Ne abbiamo parlato una vita con Claudio Abbado. Soprattutto quando lui dirigeva la Philharmonie e io l’immenso cantiere della Potsdamer Platz, dove rinasceva il cuore di Berlino dopo la caduta del Muro. Matematica e musica sono strettamente legate. E lì riuscimmo a darne una prova plastica. Non so se l’idea fu sua o di Daniel Barenboim che dirigeva l’Opera, ma venendo a vedere i lavori e la selva di gru che si agitavano dissero “pare un balletto”. Detto fatto, una sera vennero con un’orchestra mista, Barenboim lo piazzammo a dirigere in un “cesto” a mezz’aria e fecero un concerto per Beethoven e 18 gru “danzanti”. Indimenticabili».
Come i ricordi di Mario Vargas Llosa che volle vivere per mesi nella nuova Berlino e scrisse «Potsdamer Platz è una delirante fantasia elucubrata, come lo stregone del racconto di Borges ne Le rovine circolari, da Piano che la sta contrabbandando nella realtà». E di Umberto Eco e Federico Zeri «coi quali teorizzammo per Pompei, finché il progetto non finì ai burocrati, un “cantiere di mille anni” con scavi perenni sotto gli occhi dei visitatori per mostrare il legame eterno fra oggi e ieri». E del genio della scienza botanica Frank Almeda che gli aprì orizzonti inesplorati per «fare della California Academy of Sciences a San Francisco uno dei primi grandi edifici pubblici americani ecologicamente sostenibili grazie al tetto coperto di terra con un tipo di graminacee che rendevano inutile il pompaggio nella falda di acqua ormai in esaurimento». Scelta avveniristica che il giorno dell’apertura, mentre venivano liberate nel cielo migliaia di farfalle gialle, spinse un vecchio capo pellerossa la cui famiglia era un tempo padrona del terreno, «a venire a fumare con noi il calumet della pace tra la scienza, la storia e la natura».
E poi ancora i ricordi di Shunji Ishida, l’architetto che gli fece conoscere il tempio nipponico di Ise «che ogni venti anni è ricostruito accanto al vecchio da demolire e, quando tagliano le tavole, fanno in modo che quelle tagliate al lato nord dell’albero vadano al lato nord all’edificio e quelle al lato est a est così via perché anche lì ci vuole armonia». E di Léopold Senghor, il poeta, ideologo della négritude e presidente del Senegal che spiegò a Renzo che «non esiste una sola lingua africana dove la bellezza non sia associata alla bontà d’animo, alla generosità, alla gentilezza. Tutte cose che mi avrebbe poi confermato Gino Strada, il fondatore di Emergency, quando mi chiese di progettare in Uganda “un ospedale scandalosamente bello”. Dove lo “scandalo” era proprio non regalare all’Africa un ospedale scalcagnato “tanto quelli non se ne accorgono” ma un centro bellissimo e “-zuri”, desinenza che in lingua swahili, appiccicata dopo un nome di cose o persone, vuol dire appunto bello e anche buono. “Kalòs kai agathòs”».
Ed è proprio quello il messaggio che il Patriarca genovese vorrebbe consegnare agli studenti del Politecnico di Milano che lo venerano per guadagnarsi infine «una piccola immortalità. Piccola s’intende». E cioè: «Apritevi più che potete a chi può arricchirvi con tutte le altre scienze e tutte le altre arti: sconfinate, sconfinate, sconfinate». Tenendo sempre d’occhio però, soprattutto nei progetti pubblici per la collettività, la “bussola cieca” che i marinai mettono sotto coperta perché non sia influenzata da alcun “magnete” esterno. Bussola che Gino Strada aveva nel cuore e gli indicava sempre la rotta giusta».