Corriere della Sera, 15 dicembre 2024
Gli elefanti si chiamano per nome
Noi sapiens siamo, per tradizione se non altro, terribilmente affezionati all’idea della nostra unicità. Che è poi anche la giustificazione che, in epoche e con modi diversi, abbiamo posto a fondamento di un diritto di uso e abuso della natura e delle altre creature viventi. Un’unicità che da un lato oggi diviene nostalgia di altri sapiens (…) da un altro ci ha spinto a sterminare specie diverse dalla nostra mettendo a rischio l’intero pianeta. Da un po’ di tempo, tuttavia, questa nostra unicità viene messa in discussione: le intelligenze artificiali sembrano superarci in capacità e scopriamo che alcune specie animali hanno tratti e capacità che pensavamo essere solo nostre. Di fatto troviamo argomenti che la attaccano, se così si può dire, sia dall’alto che dal basso. Dall’alto, la critica alla nostra unicità viene da parte di una lettura aggressiva e (al momento) fantascientifica dei poteri dell’intelligenza artificiale. Si sente dire spesso che manca poco al tempo in cui le macchine pensanti raggiungeranno e supereranno il livello dell’intelligenza umana. Noi non siamo convinti, per la verità, che qualcosa del genere possa accadere in linea di principio. Epperò l’idea di un momento della singularity in cui i computer saranno come noi e meglio di noi circola e spaventa. Dal basso, la critica alla nostra unicità viene sovente da parte di una visione naturalistica che intende superare l’antropocentrismo in nome del rispetto per le altre specie e la natura nel suo insieme. Saremmo, come umani, parte integrante di un eco-sistema complesso che include anche piante e animali non-umani. Il tutto in un orizzonte lato sensu darwiniano che di per sé ci rende meno unici nel creato di quanto credevamo. Anche se, ad essere onesti, l’unica specie che può assegnare e reclamare diritti resta la nostra: gli altri viventi ed eventualmente le macchine dipendono ancora dalla comunità giuridica umana per essere tutelati.
Questa premessa fa apprezzare particolarmente una novità scientifica che abbiamo appreso da poco tempo. Alcuni ricercatori hanno pubblicato su Nature (https://www.nature.com/articles/s41559-024-02420-w) i risultati di uno studio sul linguaggio degli elefanti africani da loro condotta per lunghi anni. La ricerca dice che gli elefanti in questione si chiamano adoperando nomi propri del tipo di quelli che usiamo noi normalmente (in buona sostanza una specie di «Antonio» o «Maria»). Ora, era già noto che altri animali non-umani, come delfini e pappagalli, si rivolgono tra di loro usando segnali acustici. Ma, mentre questi segnali già conosciuti sono sostanzialmente suoni che imitano i rumori emessi dagli animali chiamati, nel caso degli elefanti i nomi adoperati dagli elefanti africani sono indipendenti dall’imitazione del rumore emesso dagli animali chiamati. Usano, in altre parole, etichette astratte non troppo diversamente da come facciamo noi («Antonio» o «Maria» non somigliano alla persona chiamata con questo nome). È evidente che qualcosa del genere, se confermato da studi successivi, aumenterebbe enormemente le capacità espressive del loro linguaggio. Per ottenere un risultato così innovativo, gli scienziati hanno adoperato metodi di machine learning. Facile notare che dopo aver studiato gli elefanti per secoli, ci è voluta l’Intelligenza Artificiale per iniziare a decodificare il loro linguaggio.
Una rivoluzione
Tutto questo ci impone una revisione delle nostre conoscenze del cosmo e la nostra posizione al suo interno
La morale della storia dice che le due logiche che mettono in discussione la nostra unicità – quella dall’alto, basata sull’IA, e quella dal basso, basata sulla complessità eco-sistemica – cooperano nel caso della ricerca di Nature sul linguaggio degli elefanti per darci una sorpresa epistemica rivoluzionaria. In grado di imporre una revisione delle nostre credenze sul cosmo e la nostra posizione al suo interno. Insomma, la nostra fragile e precaria unicità ha prodotto la nostra civilizzazione planetaria, ma ne sta anche, sempre più velocemente, scalzando le fondamenta lasciandoci se non al centro del cosmo, almeno in una posizione alquanto singolare.