il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2024
Intervista a Carla Sozzani
«Non c’è lavoro o privato. La vita è una sola, se si ha il privilegio di fare quel che si ama», ci dice Carla Sozzani in una grigia mattina d’autunno milanese. E in questa frase è racchiusa tutta l’essenza della sua storia. Una storia che si intreccia indissolubilmente con quella di sua sorella Franca, con cui ha fatto della Moda un affare «di famiglia». Amiche, colleghe, rivali in amore e nel lavoro, unite dal sangue e dalla moda... le signore milanesi della moda, che insieme hanno fatto grande l’editoria di moda italiana. E da quando lei non c’è più, è rimasta da sola a fare i conti, i ricordi di una vita vissuta intensamente, da stylist a giornalista, editrice, gallerista, mecenate, collezionista... Dopo il Covid ha deciso di affidare queste memorie alla giornalista Louise Baring e il risultato è il volume monumentale Carla Sozzani – Arte, Vita, Moda (L’ippocampo). «È cambiato tutto in maniera talmente radicale», osserva con un velo di malinconia mentre annoda tra le dita il nastro di velluto blu con cui lega i capelli candidi. Siamo nel suo studio nella nuovissima sede della sua Fondazione al civico 87 di via Bovisasca, negli spazi di un’ex officina della periferia nord-ovest di Milano: alle pareti ci sono alcuni scatti della sua grande collezione e tra questi spicca un ritratto che l’accompagna in tutti i suoi uffici, dai tempi di Vogue. Nata a Mantova nel 1947, è cresciuta in una rigorosa famiglia alto-borghese, con due genitori severi ma all’avanguardia, Gilberto e Adelina: «Se chiudo gli occhi rivedo la casa della mia infanzia, l’orto e le corse con mia sorella per arrampicarci sugli alberi dei cachi». Carla era una bimba riflessiva e taciturna, come forse ancora oggi.
Una formazione religiosa dalle Marcelline, poi gli studi in Bocconi: immaginavano per lei e sua sorella Franca un futuro tradizionale: «Poveretti – osserva Carla con un sorriso – Franca ha divorziato, io non mi sono mai sposata, ed entrambe siamo state due mamme ‘single’. Ma in fondo, abbiamo solo seguito il consiglio di nostro padre: essere indipendenti, perché l’indipendenza è il bene più prezioso». I suoi primi passi nella moda li ha mossi nel ‘68, quando nel pieno delle contestazioni giovanili iniziò a lavorare per Chérie Moda: «Ricordo la polizia e la pesantezza del periodo, ma anche l’emozione delle prime sfilate a Firenze, quando ancora duravano 40 minuti e ognuno aveva il suo posto “fisso”. Ci alzavamo per applaudire come matti, oggi stanno tutti con il telefonino in mano. Ho assistito alla nascita del prêt-à-porter, prima ci si vestiva ancora dalla sarta: di colpo, potevi entrare nei negozi, comprare i vestiti e portarteli subito a casa. Una rivoluzione». In quegli anni faceva avanti e indietro da Londra, dove scoprì Ossie Clark e la minigonna: un giorno andò in università con un tailleur pantalone di Saint Laurent e fu rispedita a casa con tre giorni di sospensione. Si può dire che questo sia stato il battesimo della moda e della ribellione: «Visto che andavano le borse usurate, Franca e io legavamo le Gucci nuove al paraurti dell’auto e le trascinavamo per le strade della Liguria per rovinarle ad arte». Dopo la gavetta, l’approdo in Condé Nast, a capo delle edizioni speciali di Vogue, e l’inizio della carriera fianco a fianco con la sorella: «Ho risposto per lei a un annuncio per una segretaria. Si era appena sposata, ma era chiaro che non sarebbe durata: era troppo infelice, dovevo fare qualcosa. Così entrò a Vogue Bambini». Dagli anni Settanta al 1986 il giornale è stata la loro seconda casa, mentre i loro figli crescevano insieme: «Ci avevano messe nello stesso palazzo, io a un piano e lei a un altro, con gli studi fotografici e i guardaroba in comune: lo chiamavano il Sozzani Building. Ricordo i viaggi insieme per i servizi fotografici, in Africa, America, Asia... una volta in India incontrammo un indovino: molte delle cose che predisse a Franca si sono poi avverate. Ne abbiamo fatte e abbiamo avuto le nostre competizioni, le nostre guerre... una volta non ci siamo parlate per quattro anni. È stato bello finché è durato». Sì, perché quelli erano gli anni d’oro dell’editoria di moda: «La libertà creativa ha dovuto cedere il passo alla pubblicità, ero sommersa dalle liste degli investitori. Lasciai per andare a dirigere Elle Italia, pensavo sarebbe stato tutto diverso e invece fui licenziata dopo tre numeri e mezzo. Fu traumatico». Inizia così la sua seconda vita con 10Corsocomo, le collaborazioni con Azzedine Alaïa, un «gigante gentile», e la Fondazione. «L’errore che più ricordo della mia vita è una copertina con il titolo giallo: mamma che brutta che era, l’appesi in ufficio come monito per ricordarmi di non fare mai niente di fretta. Il tempo che passa non mi spaventa: quando sono rimasta sfigurata in un incidente d’auto ho capito che la bellezza è davvero effimera». Un rimpianto? «Probabilmente non aver avuto più figli».