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 2024  dicembre 14 Sabato calendario

Gli anziani e le case di riposo, una storia

Il 12 agosto di questa estate mio padre si è sentito male: una persona di 81 anni con diversi acciacchi, che da lì a poco avrebbe rischiato di andare a vivere in un luogo dove le persone anziane vivono a contatto con capre e daini, senza averlo deciso prima.
Quella mattina del 12 agosto, alle 10, la collaboratrice domestica di mio padre lo ha trovato in stato confusionale. Non è tanto vivo, forse a breve sarà morto, chi sa. È la condizione della vecchiaia, così romantica sui libri che parlano di nonnine intente a preparare il sugo per le figlie, così drastica per chi la attraversa senza l’autonomia della gioventù. Persone non autosufficienti. Non tanto vive, per nulla morte. Vanno, ma intanto stanno. Un po’ come noi, figlie o figli di queste persone: non spegniamo il telefono, non ci preoccupiamo della successione. Chi morirà, vedrà.
Quindi: il 12 agosto Stefania, chiameremo così la collaboratrice domestica, avverte la sorella di mio padre, che a sua volta chiama mio zio, il gemello di mia madre. Mio padre, 81 anni, non vorrebbe che si avvisasse nessuno, perché sta male ma sta in piedi, e c’è questa maledizione comune tra chi ha la pelle cadente e il cervello brillante che è la convinzione secondo cui è sufficiente stare eretti, per dichiararsi autonomi. Non serve mai nessuno, non c’è bisogno di altre persone in casa, finché si sta in piedi. E anche dopo, a volte.
Ma Stefania, che nella vita frequenta corsi di yoga e ha dei bicipiti che assomigliano a un insaccato asciutto, lo ha guardato e gli ha chiesto nel nostro dialetto: «Dotto’, vuoi campà o vuoi murì? Perché se vuoi murì, io me ne vado. Ho finito le mie ore, me ne pozz pur ì». (Dottore, lei vuole vivere o vuole morire? Perché se vuole morire, io me ne vado. Ho finito le mie ore, e posso benissimo andare via).
Solo a quel punto mio padre, che nella sua vita è stato dottore e che non ha mai imparato a curare sé stesso, si è seduto e con un gesto si è fatto capire: «Chiama». Così, nel giro di un’ora, si è ricomposta una strana catena familiare unita dall’urgenza: la sorella di mio padre, con cui aveva litigato una decina di giorni prima; mio zio, che per bontà cristiana lo accompagnava una volta alla settimana a fare la spesa, e me, che non ci parlavo da un anno. Mia sorella era al lavoro, mia madre non è stata tirata in causa: i miei genitori hanno divorziato nel 2015, nello stesso anno del mio divorzio ndr, e da allora non si rivolgono la parola.
Io passavo letteralmente di là: dalla casualità di quel tempismo, sono finita in qualche settimana a essere la persona che ha dovuto decidere, nel giro di pochi giorni, cosa sarebbe stato della vita di un genitore. Ho badato a lui perché nessun altro poteva o voleva farlo.
Quel giorno mio padre è entrato in ospedale con un valore di glicemia di 850 milligrammi per decilitro: i valori che vengono considerati nella norma si aggirano tra i 70 e i 150 mg/dl. Il diabete mellito di tipo 2 di cui soffre da anni era andato in forte scompenso, e così è rimasto per settimane.
In quelle due settimane di ospedale ho imparato 3 cose sull’accudire persone anziane e non autosufficienti.
La prima è che se una persona non si cura, ha tutto il diritto di non curarsi. Che sia per depressione, per banale scemenza, per ripicca nei confronti della vita, il dato di fatto è che chi ha una malattia e la ignora con deliberatezza, ha il via libera per farlo. Se intorno a te le persone pensano che tu debba essere curato, ma ti rifiuti, le strade percorribili sono quelle legate alle scelte di un giudice tutelare o all’idea di un ricovero coatto, un TSO (trattamento sanitario obbligatorio).
La seconda cosa è che il diabete non è tra le malattie che lo Stato cataloga come aventi diritto all’assistenza, o che danno accesso a dei sussidi: se hai il diabete, e da solo non ti curi, non puoi avere un sostegno infermieristico pubblico o entrare in RSA dedicate, come accade per esempio per alcune malattie oncologiche.
La terza morale, e la chiamo così non per caso, è che se il paziente non assume i farmaci necessari, se la sanità pubblica non interviene e la famiglia ha però la possibilità di farlo ricoverare in una struttura privata, questa riceverà commenti e giudizi da parte di quegli stessi dottori che si dichiarano impotenti.
Ma come, non ve ne prendete cura voi?
Eh, sai, volevo farti la stessa domanda.
Stiamo quindi per arrivarci, alla struttura con i daini che ho menzionato all’inizio: ma dove siamo, e quando? È agosto 2024, siamo in Campania, in provincia di Salerno, mio padre vive da solo e nel corso degli ultimi due anni ha perso in maniera progressiva la sua amatissima autonomia. Ma stava in piedi. Credevo che avremmo aspettato qualche anno o la sua morte improvvisa per sapere che cosa gli sarebbe accaduto.
Una figlia, un figlio, non ci mettono la testa su cosa accadrà ai loro genitori fin quando non si è di fronte all’evidenza: io e mia sorella abbiamo cominciato a pensarci anni fa, quando mia madre ha cominciato a dimenticare come accendere la tv e a confondere la camera da letto con lo sgabuzzino. Non ci pensi davvero alla vita da anziani finché fanno la spesa da soli, finché prendono le pillole che devono, finché ti chiamano e ti chiedono come va, se hai mangiato, se stai ancora con quello lì. Eppure, in Italia, siamo davvero vecchi e lo saremo sempre di più. Gli ultimi dati Istat dicono che gli over 65 sono più di 14 milioni di persone, in Italia: anziani, longevi, colmi di patologie croniche.
A fronte di questo, il modello di welfare per anziani non autosufficienti è poroso e non ha risorse sufficienti: di fatto il carico economico della cura fa perno sulle loro pensioni, sul tempo o sugli stipendi dei familiari e sul lavoro di cura non retribuito, soprattutto, delle donne. In Italia non abbiamo un modello di servizi domiciliari specifico per i caregiver, per la non autosufficienza, mancano servizi sociali di sostegno alle famiglie di queste persone. In tutti questi anni io e mia sorella, insieme a migliaia di altri familiari confusi, siamo state le persone che hanno cercato una soluzione a un sistema opaco, complesso, fragile.
Quindi: le famiglie non sono in grado di assorbire sempre il carico di cura. E non lo fa nemmeno il welfare. E allora, nell’agosto del 2024, ho fatto l’unica scelta sensata in quel momento: alzare il telefono e cercare una struttura dove mio padre potesse essere seguito, dal punto di vista assistenziale e sociale. Un posto che non sarebbe stato casa, ma dove avrebbe vissuto con dignità e salute il tempo che gli rimane.
E quindi, comincio la ricerca: come si trova una Casa di Riposo in Campania, nel 2024?
Il medico di base non ha una risposta, perché conosce solo le RSA.
L’ASL, idem.
Internet, quasi non pervenuto.
Se il sistema sanitario non fornisce indirizzi, come si stabiliscono i criteri per capire l’affidabilità delle strutture? Non esistono ranking pubblici, ma anche: cosa posso aspettarmi? Quali sono i servizi migliori e quelli di base?
Scendo al girone successivo, quello informale: chiedo in giro, a persone che hanno genitori anziani, che hanno un vissuto familiare simile. Ma il mio tessuto sociale qui, dopo 20 anni fuori casa, è inesistente, per fortuna sono nata in un piccolo paese e questo ha ancora un enorme valore di supporto. In molti mi dicono di provare a sentire Villa Stefania, la chiameremo Stefania pure questaottima idea.
Il primo contatto con Villa Stefania arriva per telefono: non hanno un sito internet, esiste una smilza pagina Facebook con delle foto sfocate, ma diverse persone ne hanno sentito parlare. Le sento, mi faccio dire cosa fanno, come sono le stanze, qual è la retta: 1.500 euro, per la cronaca. Avete posto? Sì, un paziente è appena mancato. E dai. Ci si riduce così, stanchi e frastornati, a gioire per la morte altrui. L’ho trovata, mi dico. Mio padre andrà lì. Un paio di giorni dopo mi fanno un altro nome, di una seconda struttura, dove sono stati dei genitori di amici e allora decido che andrò a vederle entrambe e deciderò dopo la visita.
Villa Stefania si trova a pochi chilometri dal paese dei miei. Guido fino all’indirizzo segnalato, cerco la struttura, ma non la trovo. Accosto, e in quel momento dal cancello di un ristorante a pochi metri esce una macchina guidata da una donna. Le chiedo se sa dove si trovi la Casa di Riposo. Certo, deve entrare qui e poi scendere giù. Qui, nel cortile del ristorante? Sì, qui. Poi scenda giù.
Varco il cancello con l’auto e trovo un giardiniere: chiedo anche a lui se sa dove si trovi Villa Stefania, perché non riesco ad afferrare la ragione per cui una struttura per anziani si trovi all’interno di un ristorante che si chiama LA TOUR D’ARGENT. Il giardiniere mi dice, certo, prenda la discesa, e poi parcheggi quando trova lo sterrato. La discesa è super ripida, ma eccolo lo sterrato, di là intravedo una struttura. Qualcosa c’è, insieme a degli elementi insoliti.
All’ingresso del cancello c’è un cartello con un programma, per la “giornata primaverile”. Lo leggo: ci sono attività divise per maschi e per femmine. Ai primi spetta segare a mano la legna, lavorare il ferro di cavallo, attingere l’acqua dal pozzo, spaccare le pietre; alle seconde la preparazione di ortaggi, sgranare il mais, macinare il sale, preparare la ricotta. Non manca il sessismo, ma non sarà un problema per mio padre, rifletto.
Parcheggio la macchina e, quando scendo, trovo un secondo elemento piuttosto bizzarro: una grande casupola di legno che riproduce un’arca. Sulla porta di ingresso dell’arca c’è una foto di un Cristo incazzato che deduco sia Noè. Alla destra dell’arca, una serie di gabbie con degli animali.
Ah, ecco: Villa Stefania si trova all’interno di un ristorante che comprende una fattoria didattica. Ma pensa, questo su Internet forse non lo avrebbero scritto.
La struttura della Villa è a pochi metri dal parcheggio, all’interno di quello che era probabilmente il vecchio casolare, immersa in un contesto che riproduce un’atmosfera medievale un po’ come l’avrebbe pensata Carlo Vanzina. Un po’ di spennellate sul cemento, tavolacci di legno scuro, finte armi. Dietro la struttura noto la piscina degli ospiti del ristorante, piena di ragazzi che stanno facendo il bagno. Provo a cancellare ogni espressione facciale ed entro con il genuino desiderio di comprendere: mi serve che mio padre vada in una struttura, e che questa funzioni.
Il casolare ha una corte interna su cui si affaccia un secondo piano: nella corte c’è una decina di tavoli. Le persone ospiti sono qui, sedute, c’è chi gioca a carte, chi ascolta la tv. Tutto si affaccia su questo spazio che attraverso accompagnata da un operatore: qui gli anziani svolgono le loro attivitàmangianostanno insieme. Una sorta di sviluppo distopico degli open space delle agenzie di marketing, dove si sta tutti vicini a fare cose che sarebbe stupendo fare da soli, e in silenzio.
Entro nelle camere da letto, che pure si affacciano sulla corte. L’operatore mi descrive i dispositivi antiscivolo della doccia mentre indica una colata di cemento in una stanzetta buia. Io vorrei dirgli: è uno scivolo di cemento, non lo vedi?
Ma voglio crederci. Voglio sperare. Poi conosco Stefania, la proprietaria, la quale mi descrive le attività di sostegno per gli anziani che qui vengono svolte: tra queste, oltre il classico orto e laboratori manuali, c’è il mandala. Perché sa, le attività che per noi sono semplici, per loro sono degli attivatori e degli stimolatori. Mi mostra lo spazio esterno, che è di passaggio per chi va in piscina o a volte prenotato dalle scolaresche che vengono a svolgere attività agricole, quelle divise per maschi e femmine. E io lo immagino, il piccolo Carlo e la piccola Gioconda, che trasportano la paglia e poi alzano lo sguardo e trovano un uomo anziano, decadente, e la paglia gliela regalano, tieni, forse serve più a te, come ti chiami, Giulio, ciao Giulio, sì, tienila la paglia, puoi farci un cuscino.
Ogni regione norma i parametri dei servizi residenziali e territoriali per i cittadini, e ne definisce i requisiti minimi: guardo le metrature, il numero di operatori, l’assenza di corridoi, gli spazi dei pasti mescolati a quelli delle attività, il fatto che si trovi dentro un ristorante, e mi dico «Non è decente, ma non credo nemmeno sia legale».
Rimango quel tanto che basta a non mostrare che sto scappando. Spero che la seconda struttura sia un posto migliore – lo sarà, spoiler –, un indirizzo ufficiale e non uno scherzo architettonico ricavato all’interno di un luogo occupato da turisti, scolaresche e villeggianti. Immagino mio padre che cade in piscina o che libera gli animali della fattoria didattica per organizzare una rivolta contro la signora Stefania. L’arca a fuoco, le capre in piscina, Carlo e Gioconda che lanciano la paglia agli infermieri. Immagino, ringrazio, e torno verso l’auto.
Curiosa, mi avvicino alle gabbie degli animali: ci sono capre, e c’è anche un daino. Un daino? Sì, signorina, ha due anni. Rimango a guardarlo per minuti e anche lui mi guarda. Cosa ci facciamo qui, stiamo pensando.
Assistere un anziano non autosufficiente esige professionalità e competenza, oltre all’affetto che ha nutrito la relazione che ci ha permesso di diventare adulti, quello non serve, a questo punto. Un genitore anziano che ha bisogno di assistenza dovrebbe poter avere un supporto professionale, e non la cura monca di una famiglia che non potrà mai dargli quello di cui ha bisogno. Dovremmo poter morire in pace, dovrebbero morire in pace, e questo dovrebbe essere un dovere della politica, non solo delle famiglie.
Mio padre oggi vive in una struttura che fa solo quello: la Casa di Riposo. Ci sono infermieri, ha fatto fisioterapia, è tornato a sentire. Gli abbiamo comprato un tablet, delle tute comode, io devo prendere ancora delle decisioni audaci: lasciamo che cammini da solo? Può avere più verdure?
Valutare queste situazioni mi provoca dei sussulti, e una leggera ansia, che poi rientra: so che è in buone mani. Non so cosa sarebbe accaduto se non avesse avuto una pensione con cui pagare la retta e se io non avessi riconosciuto i miei limiti, come persona e familiare. I limiti della cura che passa per la relazione di sangue, che inficiano la definizione stessa di cura, e la sua efficacia.
Non so cosa sarebbe accaduto se non avessi avuto dei canali informali con cui per pura fortuna sono entrata in contatto con la struttura in cui sta: quante persone anziane sono parcheggiate ora a Villa Stefania, a sognare daini e bambini che scappano su un’arca malconcia, verso il mare aperto.
Ogni giorno mi confronto con la vita dopo l’autonomia, con un’autosufficienza che è venuta a mancare e con la necessità di pensare al mio futuro, con una pensione integrativa o altri miracoli. Penso a cose poco sexy, faccio sport per prevenire l’osteoporosi, ho scritto a un consulente finanziario. Partecipo alla vita, come alla morte con un po’ di compassione, altrettanta spensieratezza, mentre una porzione del mio cervello si chiede: quel povero daino, qualcuno lo avrà liberato?