la Repubblica, 14 dicembre 2024
Reportage tra gli eroi del Sudan
Omdurman (Sudan) – All’imbrunire il ragazzo stende gli indumenti macchiati di sangue delle vittime sul marciapiede, accanto al pronto soccorso. Un vestito a fiori. Una maglia da calcio rosa. Sandali rovinati, un cellulare rotto.Queste mute testimonianze dell’orrore dovrebbero servire a identificare i proprietari. Muhammad Awad, 19 anni, scatta una foto e la pubblica online. Così gli indumenti non sono solo sotto gli occhi delle persone alla ricerca dei propri familiari davanti all’ingresso dell’ospedale Al-Nao, nella metropoli di Omdurman. O delle autorità, che Awad contatta per trovare indizi circa l’identità delle vittime. Ma anche dei 10.000 utenti che seguono la pagina dell’obitorio su Facebook. Lì vengono pubblicate persino immagini di defunti di cui non si riescono a rintracciare i congiunti. Spesso servono allo scopo.Da alcuni mesi Awad lavora all’obitorio, senza retribuzione – salvo piccole cifre date occasionalmente da organizzazioni umanitarie – come del resto la maggior parte dei dipendenti degli ospedali sudanesi, dei quali solo uno su quattro è ancora funzionante. Assieme al Sudan è deragliata anche la sua vita di prima, di cui gli restano in ricordo solo i sottili baffetti sul labbro superiore. Ne ha molta cura, quasi fossero il cimelio di un’esistenza più ordinata.L’università in cui Muhammad Awad studiava ingegneria biomedica è chiusa. La famiglia, che un tempo andava fiera di gestire una flotta cinquanta auto a noleggio, ha perso quasi tutto, forse anche il padre, scomparso da giorni. Eppure, Awad si presenta ogni giorno all’ospedale. Per lungo tempo ha dato una mano in un rifugio per sfollati. Ma qui, nell’obitoriodel principale ospedale della città, c’è più bisogno di lui.Sono passate solo poche ore da quando la milizia paramilitare delle Rapid Support Forces (Rsf) ha sferrato un devastante attacco contro Omdurman, metropoli di grande importanza strategica. A mezzogiorno sono stati sparati proiettili di artiglieria contro zone civili, è stato colpito un autobus, e almeno 17 persone sono rimaste uccise, tra cui un bambino che stava tornando a casa da scuola, da poco riaperta.I soccorritori arrivano a bordo di un pullman turistico riadattato, raccolgono i resti delle vittime. È escluso che l’area residenziale sia stata colpita per errore, perché la postazione più vicina dell’esercito sudanese, avversario delle Rsf, si trova a svariati chilometri di distanza. Quasi in contemporanea le autorità, sotto il controllo dell’esercito, riportano decine di altri morti nel quartiere. Si tratta, sostengono, di un «massacro enorme», perpetrato dalle Rsf.È l’ennesimo crimine di guerra di questo conflitto, in atto da 20 mesi e che, all’ombra di Gaza, Siria e Ucraina, ha assunto le proporzioni di maggiore crisi umanitaria mondiale. Il giorno precedente, l’esercito avrebbe lanciato un raid aereo contro postazioni delle Rsf nella città di Kabkabiya, nella regione del Darfur, a oltre 1.000 chilometri di distanza, una zona ampiamente controllata dalle Rsf. Attivisti vicini alle Rsf sostengono che oltre 100 civili sono rimasti uccisi nell’attacco. L’esercito nega le accuse, che nella nebbia di questa guerra non sono verificabili.Fin dall’inizio del conflitto, le Rsf hanno impedito l’accesso dei giornalisti ai suoi territori, cercando di mantenere il controllo sulla narrazione tramite agenzie di pubbliche relazioni. I media del consorzio Lena hanno ottenuto uno dei rari permessi ufficiali per accedere ai distretti di Omdurman controllati dall’esercito, ma ogni incontro necessita di autorizzazione e accompagnamento. Da tempo questa è anche una guerra dell’informazione.Le Rsf, originariamente istituite dal dittatore Omar al-Bashir come esercito parallelo privato, dovevano servire a proteggerlo da un colpo di stato per mano delle sue stesse forze armate. Ma nel 2019, Rsf ed esercito si unirono dopo mesi di proteste popolari per rovesciare al-Bashir. L’esultanza popolare durò poco; ben presto i generali iniziarono a smantellare le fragili strutture democratiche. E da un sabato mattina dell’aprile 2023, quando gli ex alleati si schierarono l’uno contro l’altro, stanno distruggendo anche il Paese.Secondo le stime delle Nazioni Unite i morti sono 20.000, mentre altre fonti contano fino a 150.000 vittime. Undici milioni di persone risultano sfollate, tre milioni delle quali negli Stati vicini, notevolmente fragili. Più della metà della popolazione, 25 milioni di persone, dipende dagli aiuti umanitari, che spesso però non riescono ad arrivare a destinazione a causa dei costanti combattimenti. In alcune regioni del Paese imperversa la carestia. A fronte dell’ammontare vergognosamente basso degli aiuti internazionali, i volontari come Awad si impegnano a evitare il collasso totale del Sudan. Il ragazzo parla davanti all’obitorio, l’odore della decomposizione èonnipresente: «Per qualche giorno ho fatto fatica, poi mi sono abituato», dice. Ha la mano sinistra fasciata di fresco, si è ferito trasportando un cadavere. Qui può mantenere un frammento di dignità del Sudan – a lui è sufficiente come motivazione.Lavare i defunti, coprire le loro ferite spesso gravi, avvolgerli nel sudario bianco – tutto questo per Awad ormai rientra nella normalità, così come molte altre cose. All’alba lo svegliano i colpi dell’artiglieria, che si mescolano in un ritmo cupo alle stoiche preghiere dei muezzin diffuse dagli altoparlanti.Da secoli il Sudan conosce la tradizione delNafeer, un appello alla solidarietà in tempi di crisi. Mai questa solidarietà è stata più necessaria, non solo negli ospedali, ma in tutto il Paese. In quasi tutti gli Stati federali si combatte, l’inflazione supera il 200%, la maggior parte delle persone ha perso il lavoro. Come durante la rivoluzione si sono rapidamente formati migliaia di “comitati di resistenza”, ora nei quartieri sorgono centinaia di “Emergency Response Rooms” (Err), reti di volontari candidate al Premio Nobel per la Pace lo scorso ottobre. Un riconoscimento che avrebbero meritato.Una delle prime Err consiste in cinque tavoli sotto gli alberi. Un gallo canta sul sottofondo delle esplosioni, numerose in questi giorni. L’ingegnere elettronico Ayman Adam si è ispirato alla tradizione della colazione di quartiere, offerta da suo nonno per decenni, ogni settimana, prima delle preghiere del venerdì. Undici giorni dopo l’inizio della guerra, fu Adam a preparare, con le sue braccia forti, lazuppa di lenticchie in un pentolone. E da allora non ha più smesso.Ha trasferito la famiglia a Port Sudan, sul Mar Rosso, località allora sicura. Ma lui resta. Su questo non ci sono dubbi. All’inizio, gestire la mensa era fattibile. Gli amici contribuivano occasionalmente con l’equivalente di 15 euro. Ma ora tutti hanno perso il lavoro, Adam compreso. E arrivano sempre più persone: il team di Adam fornisce 1.400 pasti al giorno. Indica quattro enormi sacchi di fagioli, il prezzo si è decuplicato dall’inizio della guerra. «Li abbiamo presi a credito», spiega.In Sudan le mense solidali come questa sono ormai centinaia. Molti dei volontari si erano opposti all’esercito ai tempi del movimento per la democrazia. Che fine farà il movimento? Adam risponde diplomaticamente, forse anche perché un dipendente dell’esercito in abiti civili è in ascolto: «I valori di allora diventeranno realtà un giorno, ma ora vogliamo stabilità».La stabilità è per Marwa Mohamed e suo marito Shihab Salah un ideale irrealizzato. A marzo sono riusciti a fuggire dalla parte di Omdurman controllata dalle Rsf, un’area sistematicamente saccheggiata dalla milizia. Salah, 46 anni, elettricista ed ex poliziotto, è stato detenuto dalle Rsf in quattro luoghi diversi. «Mi hanno frustato – racconta – volevano sapere tutto sull’esercito, chiedevano delle posizioni strategiche». Dopo tre mesi di frustate, alla fine si sono convinti che non sapeva nulla e lo hanno liberato.Ora i coniugi sono seduti sul divano lasciato loro dallo zio di Salah, ma la parete alle loro spalle è crivellata dalle schegge del proiettile esploso il giorno prima, mentre i due erano nell’altra stanza. «Può sempre succedere», dice la moglie, «non c’è un posto sicuro». Avrebbe potuto andare molto peggio. Pochi metri più in là, una casa è andata quasi completamente distrutta. I vicini hanno tirato fuori i feriti dalle macerie e hanno allestito un rifugio d’emergenza.All’obitorio il giovane volontario Awad ha identificato la maggior parte delle vittime del bus. Famiglie in lutto passano a prendere i corpi dei loro cari per seppellirli, secondo i dettami dell’Islam, entro il giorno successivo al decesso. Ma ci sono anche morti che nessuno ha preso in carico, e che allo scadere delle 72 ore andranno inevitabilmente incontro a una sepoltura anonima.In mezzo al trambusto che regna all’esterno dell’ospedale, Awad si ferma un attimo. È il pensiero dei parenti ignari delle vittime che lo affligge più di ogni altra cosa, dice.Traduzione di Emilia Benghi