Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 14 Sabato calendario

Intervista ad Angelo Peruzzi, ex portiere

«Adesso? A casa ci sto poco. Curo i miei interessi immobiliari e soprattutto sto all’aria aperta: il mio terreno, i miei boschi, i funghi, la caccia al cinghiale. La famiglia, gli amici, le cose semplici che mi fanno star bene. Il calcio è diventato un cinema, non fa per me».
Angelo Peruzzi, da Blera, provincia di Viterbo, classe 1970, è stato uno dei migliori portieri del mondo per un decennio. Lo chiamavano Cinghialone, «ma non mi piace, preferisco Tyson, me lo mise Liedholm», e oggi gira alla larga dal mondo del pallone. Perché? «Tutto è cambiato. I giocatori? Un’azienda. Firmano un triennale e dopo pochi mesi chiedono l’aumento col procuratore o vogliono essere ceduti. I portieri? Più bravi coi piedi che con le mani. Io oggi mica potrei giocare. Non dico sia sbagliato, ma non fa per me. Meglio i boschi, la natura».
Il primo ricordo legato al pallone?
«Anni ’70. L’ultima strada di Blera, polverosa, poco frequentata: tre contro tre con una piccola palla di gomma per fare gol, con le cassette di legno come porte».
Senza portieri?
«Senza. Mi divertivo a fare gol. Ma, diciamo la verità, ero una “pippa”».
Ma allora come è potuto succedere?
«La mia maestra elementare, in quinta, organizzò una partitella. Chi va in porta? Silenzio. Allora facciamo così: chi tocca la traversa fa il portiere. Ero il più alto, la sfiorai, sono rimasto tra i pali. Due anni dopo, l’ex romanista Scaratti viene a Capranica, pochi chilometri da casa, per un provino della leva 69. Io guardo da dietro la porta. Poi alla fine fa all’allenatore dell’epoca: e quello? indicando me. Para benino. Cominciò così».
13 dicembre 1987, San Siro, Milan-Roma. Un petardo dalla Sud sfiora Tancredi che ha un malore e deve essere sostituito. Il debutto in serie A.
«17 anni, ero riserva. Liedholm dice: fate entrare il ragazzino. Tutta la panchina si volta e io che ero l’ultimo, mi volto: vedo i barellieri. Pruzzo dal campo: deficiente, tocca a te».
Poi un anno a Verona.
«Lontano da casa, fu dura. Giocai bene, ma ero solo. Mi salvarono le figurine Panini. Mi fecero compagnia».
Il ritorno a Roma, un grande futuro davanti e il Lipopil, le pasticche per dimagrire a base di fentermina, vietate: il controllo antidoping, la squalifica per doping di 12 mesi. Un mondo che crolla.
«Ero ingenuo, un “bambacione”. Finii dentro quella brutta storia. Solo il grande presidente Viola fu gentile con me. Gli altri? Spietati. Tornai a casa: i giornalisti, la vergogna con la gente di Blera. Mesi d’inferno. Ma divenni uomo. Non mi fidai più di nessuno. E poi squillò il telefono».
Chi c’era dall’altra parte?
«Montezemolo. Mi voleva la Juve: tornai a vivere. Ma poi quella Juve lì saltò per aria e pensai: è finita anche stavolta. Invece Boniperti mantenne la parola e mi chiamò a Torino. Peruzzi, mi disse, capelli corti, vestiti civili. Lei pensi a giocare a tutto il resto pensiamo noi».
E lì vinse tutto.
«Campionati, la Champions, le coppe internazionali. Anni stupendi, grandi soddisfazioni».
E Peruzzi che diventa il portiere più forte del mondo.
«Ma non scherziamo, dai. Prima c’era Zenga, molto più bravo di me. E poi io ho sempre visto gli altri parare meglio. Toldo, Pagliuca. In Under 21 Antonioli faceva parate che io nemmeno immaginavo».
Vabbè, andiamo avanti: dalla Juve all’Inter.
«Seguo Lippi, ma si fanno male Ronaldo il fenomeno e Vieri. Io paro, ma l’anno è deludente».
E la chiama la Lazio.
«Cragnotti, lo scudetto che avevano appena vinto, trenta chilometri da Blera: come potevo dire di no. Sono stato benissimo, anche se poi il club fallì e Lotito ci spalmò i contratti. Ma ero sereno. Stavo bene. Anche se i romanisti dicevano che ero diventato laziale e i laziali che ero romanista».
Prima dell’addio, il Mondiale 2006: Lippi la sceglie come vice di Buffon, ma di fatto un vero team manager.
«Ma no, andai perché volevo giocare. Abbiamo vinto quel Mondiale per due ragioni. La rabbia di molti per la storia di Calciopoli che ci aveva sputtanato a livello internazionale. E quelli che non giocavano o giocavano poco: davamo il massimo in allenamento. Fu quello il segreto del gruppo».
Già, Calciopoli.
«Non discuto le sentenze. Ma Moggi io me lo ricordo bene: tutti lo cercavano, tutti chiedevano consigli, tutti volevano essere come lui».
Nel 2007 l’addio al calcio e una carriera tra viceallenatore e dirigente.
«Le ginocchia non reggevano, pensai di fare l’allenatore. Ma non era per me. 24 ore a pensare solo calcio? No, grazie. Un giorno Capello mi disse: Angelo, per fare l’allenatore devi anche andare in tv a farti vedere. Io? Capii che non era una roba per me».
Meglio team manager alla Lazio?
«Era bello fare da unione tra la squadra e la società».
Poi però con Lotito…
«Ma no, sfatiamo una leggenda: sono andato via in pace. Lui ha il suo carattere, ma pure io: permaloso, tanto. E capoccione, testardo. È finita. Giusto così».
Il più grande calciatore di tutti i tempi?
«Nessuno come Diego. Inarrivabile».
E il portiere?
«Facile: Dino Zoff. Faceva sembrare tutto facile. Poche parole, solo fatti. Un grandissimo. Come portiere e soprattutto come uomo».
E oggi? Chi para meglio?
«Sono tanti. Sono bravi. Ma sto gioco dal basso mi fa ridere. Dice: serve per fare gol. Se non sbagli però. Se qualcosa va male, hai il nemico in casa. Ma siamo matti?».
Chi vince lo scudetto?
«Non so. Posso dire che Antonio (Conte, ndr) ha una fede dentro che fa la differenza. Vive per quello. Tutti i giorni, sempre».
Un rimpianto?
«Capello mi voleva al Real. A Madrid sarei andato volentieri. Ma poi lui è stato lì solo un anno».
Il futuro di Peruzzi?
«Faccio tante cose, vedo poche partite, mi annoiano a volte, meglio i boschi, i funghi la caccia. Lo so, lo so: vivo a Blera, un paesino in provincia di Viterbo. Ma io qui sto bene, sono felice. E per me il posto più bello del mondo. Com’è che si dice? Contento io, contenti tutti».