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 2024  dicembre 14 Sabato calendario

Intervista a Tim Burton, «alieno» finalmente integrato

Scheletri dalla faccia tonda, spose cadavere, bambole assassine. Ma anche barbieri con la lama un po’ troppo affilata, animali deformi, alieni inquietanti. Se si potesse fare un viaggio nella mente di Tim Burton, questo sarebbe il panorama. E, naturalmente, le immagini non scorrerebbero una dietro l’altra come ordinate diapositive, ma sarebbero intrecciate dal caso, disposte in una sequenza imprevedibile, in un labirinto. Tim Burton’s Labyrinth è la nuova mostra immersiva che dopo aver girato mezza Europa, ora spalanca le porte dell’universo del regista a Milano (alla Fabbrica del Vapore).
Quindi, se potessimo entrare nella sua mente ci troveremmo in un labirinto?
«L’esperimento era fare una trasposizione fisica di quello che avviene nella mia mente. Senza dubbio, ci ritrovo il mio processo creativo: tutto nasce da un disegno che, ogni volta, può portarmi in una direzione o in un’altra. Può diventare un film, una animazione o anche niente».
Complesso, si direbbe.
«Nella testa ho una serie di stanze collegate e se apri una porta non sai mai dove andrai o dove saresti andato se ne avessi aperta un’altra. È ogni volta uno strano viaggio».
Un labirinto è un posto in cui addentrarsi e magari scoprire qualcosa di nuovo o un luogo da cui scappare?
«Beh, è entrambe le cose. Di certo io non posso scappare dal mio labirinto. L’idea di perdermi mi spaventa, ma mi succede ogni giorno, quando mi siedo al mio tavolo da lavoro e inizio a disegnare. È spaventoso e divertente allo stesso tempo. È un po’ come perdersi in un luna park».
Lei ha la capacità di rendere piacevole il disturbante.
«Da sempre le cose considerate da tutti le più sgradevoli finiscono per essere le più piacevoli per me, o almeno le più interessanti. Penso sia perché non credo nel dividere tutto in buono o cattivo, luce o ombra, giusto o sbagliato».
Qualcosa la spaventa?
«Sì, la vita cosiddetta normale, di tutti i giorni. Sono stato un alunno terrorizzato dall’idea di andare a scuola. Mi spaventavano perfino i miei genitori. La mia auto terapia è stata mettere questi pensieri su un foglio e tuffarmici attraverso il disegno, trovando un modo positivo per gestire le preoccupazioni».
Da bambino si sentiva solo e incompreso. Ora è tra i più grandi nomi di Hollywood: si sente finalmente nel club?
«Quando cresci non sentendoti parte di nulla, realizzare che a un certo punto sei riuscito a collegarti è un sentimento davvero speciale, di cui oggi sono molto grato. Mi sento davvero fortunato nell’essere finalmente capito».
Nella sua arte torna spesso il pregiudizio: il suo è un invito ad andare oltre?
«È interessante perché sono cresciuto sentendomi uno straniero perfino nel mio Paese: mi percepivo un alieno proprio perché ho sempre rifiutato le etichette. Con me non serve arrivare al pregiudizio: già la categorizzazione non mi è mai piaciuta».
Una volta ha detto che se non avesse fatto il regista sarebbe diventato un serial killer. Conferma?
«Beh, forse meglio non ripeterlo prima che inizino a crederci in troppi. La verità è che non mi sentivo tanto bravo: non ero un bravo studente, non me la cavavo granché bene in generale e sono stato fortunato, in questo senso, nel buttare fuori il mio malessere, il mio disagio, attraverso le immagini e il cinema. Mi ha aiutato a mettere al suo posto ogni pensiero cupo, ogni idea stramba, ogni impulso insensato. Ma la prospettiva di diventare un serial killer è una cosa più simbolica, direi».
E comunque, anche tutti i suoi presunti «cattivi» si rivelano essere dei buoni. Quindi crede nella bontà?
«Sì, certamente. Da bambino guardavo molti film con i mostri e anche se venivano identificati come i cattivi, alla fine la maggior parte di loro erano semplicemente non capiti. O diversi e perciò considerati mostri. Io li vedevo come figure positive, con le quali riuscivo a relazionarmi».
E quindi lei è un buono?
«Non lo so, dovrebbe dirlo chi mi sta vicino (ma della sua compagna, Monica Bellucci, preferisce non parlare, ndr)».
Cosa o chi la sorprende?
«Il bello è che riesco a sorprendermi tutti i giorni, anche diventando vecchio. Credo sia una mia qualità. Tra le persone che più mi hanno sorpreso c’è la mia insegnante di arte del liceo: è stata la prima a permettermi di fare quello che volevo fare. In altre parole, la prima a lasciarmi essere chi fossi. Lì ho imparato che essere differenti è bello: vuol dire essere unici».
Uniche sono anche le sue passioni: è vero che ama i cimiteri?
«Sì, da ragazzo ci vivevo vicino e spesso mi ci rifugiavo. Lì trovavo una sensazione di pace che mi permetteva di riflettere, meditare. Ci andavo e ci vado per pensare, assaporando quella sensazione eccitante ma rasserenante al tempo stesso».
Cosa pensa dell’intelligenza artificiale applicata al cinema?
«All’inizio ne ero entusiasta, ma ora certe derivazioni mi inquietano. Di certo sono felice di essere cresciuto in un mondo analogico: se fossi stato un ragazzino nell’era dei social network non penso sarei sopravvissuto».