Corriere della Sera, 14 dicembre 2024
Il miracolo irripetibile del boom economico
Siamo stati capaci nell’immediato dopoguerra di dare vita a un miracolo economico che ci ha portati a raggiungere di colpo livelli di reddito pari a quelli di nazioni che erano state imperi non molto tempo prima. Come il Regno Unito. Quanto rimpianto si percepisce oggi di quegli anni? Anni nei quali, tra nostalgie del tempo che fu e deprecabili aspirazioni a finire nell’orbita dell’Unione Sovietica, c’era una moltitudine di italiani che produceva idee, aziende, prodotti, brevetti. Qualcosa di così poco consueto per l’Italia da essere chiamato appunto «miracolo».
Come tutto questo sia potuto accadere, e come oggi si faccia fatica anche solo a immaginarlo un secondo «miracolo», è l’oggetto di un libro fatto di libri: Un miracolo non fa il santo (Ibl Libri). Trecentotrentatré pagine frutto di un lavoro meticoloso, di grafici, di letture, di citazioni, di storie che ripercorrono la vicenda economica unitaria italiana dal 1861 al 2021. Dove gli anni che vanno dal 1947 al 1964, quelli del «miracolo», sono l’eccezione.
Un’eccezione fatta di tante piccole-grandi innovazioni. Il primo punto di ristoro autostradale. Inventato da un signore, Mario Pavesi (sì, quello dei «pavesini»), imprenditore di biscotti che apre un negozio sull’autostrada che da Milano portava a Torino. La prima moto o meglio il primo scooter a scocca portante. Che significa che non si doveva scavalcare per salirci e starci seduti: la mitica Vespa del 1946. Anno fortunato, nel quale una coppia, Piera e Pietro Ferrero, ad Alba inventa il Giandujot che diventerà poi la Nutella. E che dire della scatola di latta che conterrà l’altrettanto mitica «miscela Lavazza»? I freni a disco Brembo del 1964.
La chiave di lettura che spiega l’eccezione «miracolo» è tanto originale quanto poco sorprendente per chi abbia avuto modo di incontrare l’autore o avere avuto contezza della sua azione intellettuale. Rossi, già professore ordinario di Economia all’Università di Roma Tor Vergata, lavori alla Banca d’Italia, al Fondo monetario internazionale, è stato anche senatore e deputato prima con i Democratici di sinistra e poi con il Pd dal quale è uscito in polemica. Oggi è consigliere d’amministrazione dell’Istituto Bruno Leoni, organizzazione promotrice della cultura liberale in Italia, del quale è stato anche presidente.
La sua chiave di lettura è figlia della combinazione di due fattori. Il primo, legato a una «cultura avversa alla crescita»: fatta di non amore per il rischio e il cambiamento come motori di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Il secondo, figlio della «volontà delle classi dirigenti di fare fronte ai limiti culturali degli italiani sostituendosi ad essi per ovviare dirigisticamente alle loro carenze… con il solo risultato di rendere ancora più convinto negli italiani il desiderio di protezione e radicata riluttanza alla modernità». È solo nel dopoguerra che fu consentito alla gente comune di provare liberamente a innovare e trovare nel mercato le conferme alle proprie intuizioni.
Come sottolinea l’economista Deirdre N. McCloskey nella sua acuta prefazione, l’Italia riesce a porsi alla testa delle economie moderne tra il 1947 e il 1964 non per gli «investimenti keynesiani né [per] gli incentivi neo-istituzionalisti imposti dallo Stato. Fu la libertà».
Quella libertà che, come controprova, gli italiani migranti avevano trovato in precedenza in altri Paesi come gli Stati Uniti. Come ricorda ancora McCloskey, quegli italiani che non conoscevano l’inglese o lo spagnolo ma che erano in grado di sfruttare appieno «la libertà dal permesso» che trovavano in America, nel Regno Unito, in Australia e persino in Francia.
Negli anni seguenti al «miracolo», l’intervento delle classi dirigenti produce una situazione nella quale il Paese si indebita man mano per pagare soprattutto gli interessi che gravano sul debito contratto in precedenza. In un articolo di Ennio Flaiano pubblicato dal Corriere della Sera del 18 agosto 1979 si racconta di una cena fra Luigi Einaudi, allora presidente della Repubblica, e alcuni intellettuali (fra cui lo stesso Flaiano) nelle stanze del Quirinale.
Servita la frutta, Einaudi – data la stazza delle bellissime pere – chiese ai commensali se qualcuno di loro avesse voluto dividerne una con lui. Lo scrittore prenderà l’aneddoto a pretesto per descrivere come, con la scomparsa dei De Gasperi, degli Einaudi e Pella, sarebbe finita l’epoca dell’Italia sobria e dignitosa. Quella tesa a usare la libertà ottenuta per creare, costruire, intraprendere. Cominciando invece l’era delle «pere indivise». A spese dello Stato.
Certo, c’erano da colmare divari importanti in termini di benessere non economico. A cominciare dalla sanità. C’era da mantenere una coesione sociale in tempi nei quali il terrorismo sembrava potere scardinare le basi stesse della convivenza. Ma si scelse di farlo attraverso la strada più semplice, quella del debito. Un cambiamento di rotta rispetto agli anni immediatamente post-bellici «tutt’altro che subitanea – scrive Rossi – ma che al contrario veniva da lontano». Radicata in una cultura di una parte rilevante della società avversa alla concorrenza, alla libertà di pensiero.
Un’avversione che si riflette nell’«opinione negativa circa i valori e le implicazioni dell’economia di mercato». Fatta di tentativi, di intrapresa, di rischio, successi e fallimenti. E che vediamo ancora oggi permeare la nostra società con l’ostilità dichiarata o meno alla scienza, o al «vilipendio dell’attività di impresa», nel rigetto delle opere infrastrutturali. Alla manifesta convinzione che i vincoli di bilancio non siano realtà ma opzioni.